lunedì 31 marzo 2008

sabato 29 marzo 2008

shivers, il male in piano stretto

A Toronto un complesso immobiliare denominato “l’Arca di Noè” è pubblicizzato come oasi e riparo dal caos cittadino e, dotato finanche di centro medico privato e d’ogni genere di comfort, assicura una vita realmente a misura d’uomo. L’umanità che vi alloggia è varia ma pacata, finché un misterioso omicidio-suicidio non giunge a rompere l’idillio. Si scoprirà la ragione di quella e di altre sanguinose vicende essere legata ad un’attività di ricerca medica volta a ovviare al trapianto degli organi mediante l’inserimento nel corpo umano di parassiti. Questa in sintesi la trama, che però appare del tutto marginale eccezion fatta per alcuni punti che suturano la narrazione e la sviluppano spiegandola.
L’ambiente asettico dell’arca di Noè – moderno e limpido, contrapposto al sistema-città che è vigorosamente, ma a voce bassa, criticato per le stressanti condizioni di vita – è di per sé portatore di tensione in virtù dello stato di anomala clausura in cui vivono gli abitanti, ai quali non si rende necessario uscire dal centro neanche per le consuete compere o per le visite mediche. È questo uno stato che bene interpreta l’agiatezza dei nostri tempi, è uno stato che svela quella dinamica lacerante e già invertita per la quale l’uomo in nome della comodità rinuncia di buon grado alla sua congenita propensione animale al deambulare. Si preparano le condizioni per un morbo più sottile. D’altronde questo segno Arca di Noè vuole un significato, per poi spiazzarlo: l’arca sopravvive ai flutti innaturali, ma lo scotto è l’esasperazione della reazione alla chiusura e alla solitudine.
C’è già il Cronenberg che sarà. Ancor più apprezzabile qui poiché i mezzi economici erano sensibilmente inferiori. C’è già l’indissolubile relazione fra l’elemento psichico e quello fisico, ove è il secondo a legiferare sul primo, con un gusto spietato e oltremodo sincero di indagare l’umanità attraverso il corpo e le sue mutazioni (o adattamenti). Non pare a tal riguardo casuale il dato che la componente che anticipa il futuro provenga, già in questo film, dalla medicina, né che tale futuro sia in realtà un non-futuro: nella ricerca per rimediare alla pratica del trapianto s’innesta l’originale e più essenziale deviazione umana: la chimera della sregolata soddisfazione carnale spinge un medico a stravolgere quella ricerca, e allora i parassiti risvegliano nei corpi che li ospitano i più sfrenati desideri sessuali, così eccessivi da ottundere la coscienza, così assoluti da trasformare gli esseri umani in puri impulsi erotici. È chiaramente una visione tragica del futuro, quella di Cronenberg. Ma c’è dell’altro. Più sotto. Più in alto. Al di là degli effetti strettamente scenici che hanno dato al regista fama im-mediata già da questo film, è già in questo film che la sua sensibilità fuori dal comune si manifesta prendendo rotte inattese. Non si tratta di un grossolano tendere allo splatter né nell’agitarsi fallico dei parassiti né nelle sequenze di affioramenti e gonfiori vari dagli stomaci dei personaggi. È piuttosto altro che arriva allo spettatore. Come la coda di una paura, di una minaccia. L’orrore, un percepibile orrore per il contatto fisico, prende a imperare sulla scena bandendo e allo stesso tempo innescando, per contrasto, quella purificante frenesia carnale che è destinata, nella logica dell’annientamento, a invertirsi. Il sesso è umano più ed oltre la ragione, ma è nell’annullamento della ragione che si nutre la fine. Pensiamoci un attimo: siamo a metà degli anni Settanta, la stagione dell’amore libero è passata ma palpabile, è già il regno dell’eroina, della siringa; di lì a poco piomberà a otturare le carni la sindrome da immunodeficienza acquisita, l’AIDS, i cui primi casi risalirebbero al 1959 (Congo), al 1969 (Saint Louis, USA) e al 1976 (Norvegia), ma è solo nel 1981 che a Los Angeles sarà ufficialmente identificata l’epidemia. Da allora l’esperienza sessuale ha assunto una sgradevole patina orrorifica che ha convertito le antiche inibizioni morali in più nuove e sempiterne remore. Una sorta di scontro finale fra la sessualità intesa come strumento che garantisca vita eterna – filiazione, continuazione della specie – e la sessualità intesa come fucina di malattia, di consumazione, di morte.
Cronenberg ha dunque avuto il merito puramente intuitivo di rappresentare la malattia erotica come seme di distruzione dell’uomo, e lo ha fatto con la solenne drammaticità che il tema richiede. Lo ha fatto ricevendo l’insegnamento, certo, dei morti viventi di Romero (1968), ma spalancando a sua volta le porte per un’altra epocale storia di parassiti: Alien (1979). Con una differenza sostanziale che fa del suo lavoro un prezioso punto di partenza: l’incomparabile genuinità espressiva di fronte ad una storia dai risvolti così fondanti. Allora si evidenziano un pre-finale sconvolgente in cui la collettività è inebriata dalla sete di liquori corporei, e il finale vero e proprio che stacca dal resto del film con fine ironia e preannuncia, insieme con quella del film, la fine della civiltà.

Un’ultima nota, amara. Non è scritto in nessun manuale storico, in nessun codice genetico, che all’avanzare dei tempi corrisponda un proporzionato processo etico o intellettivo dell’essere umano: nel film sono presenti avvenimenti – si noti: non più violenti di quelli dei film d’oggi – che non sarebbero rappresentabili in questa epoca a soli trent’anni di distanza da Shivers. Rimandi tragici che oggi – aumentati o rinvigoritisi certi vecchi tabù – sarebbero nel loro lambire pedofilia e incesto facile miccia di scandalo, ma che tagliati amputerebbero drammaticamente le ramificazioni semantiche del film. In sostanza, l’autenticità di Cronenberg suggerisce che il male per essere denunciato ha bisogno di venir esplicitato senza indugio; mentre oggi un insano bigottismo richiede che esso venga fugato alla cieca: equivale a chiedere a un bambino di evitare l’uomo nero, cioè un qualcosa che non avendo caratteri visibili pisola nocivamente fra realtà e leggenda. Confusione, moralmente e politicamente corretta, ma controproducente confusione.

Dal Rapporto Confidenziale di febbraio

venerdì 28 marzo 2008

il chinotto non si beve, si deve

Oh mamma come mi sento godereccio! La prima cosa che ho visto arrivando da nord è stata una sciordata di munnezza ai lati della superstrada. Il cielo era coperto, ma sotto alla muntagna c’era un’ulteriore tettoia giallognola scarsamente densa ma colorante, come uno strato di nubi limacciose sui paesi del vesuviano, almeno a quella distanza. Repulsione, il tuo nome è il primo! L’istinto del testacoda è una manovra mentale verso la salvezza, ma le leggi fisiche, ahi le leggi fisiche che castrazione! Ogni volta che ci torno, dopo anche solo una settimana, mi pare di indossare abiti sempre più umidi, o unti, o comunque assai prestanti per condizioni di immenso cordoglio. Annuso ferite fritte, e vuoti di stomaco fra gli albicocchi ancora neri, o trasparenti. Questo posto mi soffoca. Questo posto fisico dove smette di superarsi i contorni è una fossa comune… ma tutti i meglio muort’ ‘e chi v’è stramuort’ non basteranno a levarmi il godorume, gogol e rum e chi ve sona ‘e campane a mmuorto. Oggi mi faccio un piatto di pasta di Gragnano, o ancor più vicino, con schemini di mozzarella di bufala e passata pomodori di qua attorno, secondo ci metto un pollo qualunque dal pollaio, e per contorno verdure abbeverate alle falde scialbe delle colature giallognole: m’hanna fa’ ‘o chinotto ‘sti pisciun. Poi vado in bici a smaltire il tutto, fra le aiuole di banane e i ramoscelli di frigorifero, colgo qualche fiore, qualche scatoletta di tonno, e frugo al naso i profumi disperati di una pasta e fasule di tre o quattro settimane.
Non c’è dolore che ci contenga, vermi, ci nutriamo d’assuefazione e di terra, e di quella terra, spalmata nelle orbite, assorbiamo tempra e sostanza in perpetua impermeabilità. Resta solo chillu chinotto che m’avita fa’.

giovedì 20 marzo 2008

mmmhhhh

Dunque vado anch’io. Pare in cerca di una caverna, di quella mia. Anche se alla voglia di apostrofare gli spazi bui s’accompagna una sorta di timore della sottrazione. È che non sai mai, ogni volta, quanto ci resti al buio. Capita che nella caverna si smarriscano le scie, e la condizione d’ombra, il cono di umidità che stordisce le narici, arpiona la realtà e la deturpa con miracolosa efficacia. In fondo a scuoiarsi ci perdi sangue e coltello. E anche quando te ne fai bevute, non sai mai se il fondo del contenitore corrisponde al tuo fondo. Smascellare nella caverna è una sfida che presuppone un volume adatto, contingenza, sporgenza di istinti e necessità ove formicolano sicurezze da frangere. È, in qualche modo, violenza. Autoviolenza.
Intanto è stata serata scugnizza, què loco!

A Libmagazine siamo tutti tibetani.

martedì 18 marzo 2008

uso la testa

A volte nel frigo poi ci trovi un cadavere davvero. Non mi piace. È funerea la cosa, e se ci metti un paramento sfocia nel decadente. Non va bene. Invece ci sono dei titoli – non che la cosa c’entri con la precedente – che ingravidano. Germania anno zero lascia immaginare quel debito che l’equilibrio deve allo stato di bilico quando s’esaurisce un moto e ne inizia un altro. Ma è poca roba, sempre sti regazzini fra gli alluci. Il neorealismo, molto comprensibilmente, ha abusato di maternità e paternità e, tutto proiettato verso la rinascita, ha anche leggermente fracassato. Germania anno zero, si diceva una notte fumosa di qualche anno fa, rende palpabile, esclusivamente ad accostamento di parole, la ruvida e salubre freschezza dei capelli appena rasi, un’indomabile tensione alla propria connaturata direzione quasi in abbraccio col destino. La violenza del cranio, che è sempre un abuso, una spavalderia mostrare nudo. Proprio lui, che regge e serve ogni noto motor – altro che altre stelle!
Così, dopo tre anni dall’ultima pelata, torno a casa anno zero. Sansone non capiva un cazzo di sostanze, quel gabbano si sfringuellava i boccoli. Ma non è il punto. Magari altrove saranno snodati i motivi per cui in alcuni momenti si pretenda dal corpo un imbruttimento o piuttosto una testata in faccia al gusto comune. Magara, si diceva una sera che pioveva vino. So solo che il mio cranio forma una sorta di sperone aguzzato giusto sopra la fronte, e che quando sui campetti o nel vico usavo quella parte per colpire chi fracassava non provavo dolore. Ma un tagliente piacere, e un sapore di sangue invisibile. A volte, in preda alle derive romantiche che ciascuno attraversa, ci ho rotto anche qualche armadio, qualche porta. Ovunque porta la testa.

giovedì 13 marzo 2008

Alina Marazzi, un'ora sola ti vorrei


“Un’ora sola ti vorrei” è un film documentario di Alina Marazzi – nelle sale adesso con “Vogliamo anche le rose”. È la storia di sua madre, della sua famiglia, dell’abisso della depressione. Ne scrivo su Libmagazine (clicca qui). E ora ci penso un altro po’. Dico che una costruzione così, che si spinge nell’autobiografismo con profonda penetrazione, può essere superficialmente tacciata di presunzione. Bene. La presunzione di aver dentro qualcosa da cavare che possa interessare – che debba interessare – anche a coloro che da quel dentro sono per inequivocabile natura esclusi. La presunzione, però, barcolla, cade, crolla, s’estingue e in fine sparisce se ciò che affiora da dietro alle pareti è bello. La bellezza si nutre di presunzione, non v’è per essa altra strada. Alina Marazzi è bella.

c'erano un tedesco, un inglese e un ceppalonese


martedì 11 marzo 2008

pazza pezza inter su radio munaciell'


sulle frequenze di Radio Munaciell'
Me Voy (trad. "io m'avvio")- canta el nino Fernando Torres

Come volevasi dimostrare è stata bistrattata la pezza, di più: usata a mappina dai reds. Ma non ci spiace. Non ci spiace perché lo sport è un sublime gioco che vuole disciplina, attenzione, grazia, agonismo, bellezza. La speranza non rientra. La speranza, come la fede, compete agli uomini che cercano l’ultraterreno. Farne 3 al Liverpool è moltiplicazione di pani e soprattutto di pesci. Di pesci. Quindi Mancini. La sua faccia è bollita, l’occhio è lesso, vagamente triglioso, i capelli ben curati giurano che lo specchio ha un suo ruolo anche nel calcio, anche nella panchina. Così che a guardarsi il ciuffo che gradualmente s’argenta ti scappa di considerare l’umanità da pollame di Burdisso, un difensore disarmato e disarmante che ha zucchero in zucca tanto poco è il sale. Questo Mancini non lo sa. L’avesse saputo l’avrebbe sostituito dopo il primo cartellino giallo, arretrando magari il leoncino argentino con le gambe d’acciaio xaviero e inserendo quel gran figo. Mannò, l’argento del ciuffo acceca, brilla e quasi cuoce, così la faccia si fa ancor più lessa. Però il pubblico dimostra grande dignità e applaude, e i cronisti, questa tronfia e bassa manovalanza dell’informazione, si gongolano nel trovar valori in atti automatici e privi di senso, “bravi ragazzi, clap, clap, clap, bravi, ragazzi bravi clap!”. I calciatori non s’azzuffano come a Valencia un anno fa. Si stringono le mani. Mi fanno pena. Pensano probabilmente alla Lamborghini che faceva un rumorino strano e ora sta dal meccanico. L’operaio in curva applaude, afferra un pretesto per sentir comunque di aver detto la sua con grande nobiltà. La Lamborghini faceva invece un sibilo all’anteriore destra, la sospensione. L’operaio torna a casa con qualche euro in meno, ma si sente fiero per quell’applauso. “Bravi ragazzi, clap”. Qualcuno in campo invece mormora dell’arbitraggio, che così non va. Non mormora lo stesso dell’arbitraggio che invece gli sta dando il campionato italiano. Così non va. Si spegne ormai la luce sul comodino, domani sveglia alle quattro e mezza per timbrare il cartellino alle cinque, meno soldi in tasca ma è talmente bello uguale mentre in testa riecheggia un clap clap che sembra un tamburo, mentre in un bel ristorante un calciatore si concede un ricco vino bianco accanto all’orata, che il giorno dopo finalmente Lamborghini.

Se esiste ancora un Ciarrapico


Mannò, dai. È manovra, machiavellismo, dai. Non esiste Ciarrapico. Non esiste perché non esiste meraviglia sulla sua presenza nelle liste del popolo della (o delle?) libertà, non sussiste, perché il cavaliere ha ingroppato il trotterello verso destra, è chiaro, e a destra se esiste un Ciarrapico te lo ritrovi e te lo meriti tutto. E lui verrà, sempre se esiste, col suo carico di acque minerali e qualche bancarotta fraudolenta, verrà, se esiste, con qualche giorno di carcere e qualche altro di arresti domiciliari tanto per non farsi mancar niente, mancar niente, se esiste. Ma tanto non esiste. Non c’è. Non c’è mai stato. È solo un brutto sogno. Come brutto dev’essere il gusto di chi trova bellezza nella ventennal mascella parlante, o nella biografia di tal Storace – ma che poi, ‘stu Storace, esisterà veramente pur’isso? E la Mussolini? Mannò, che state a dire? Ancora questi qui? Ma poi per cosa? Per il senato? No, non è possibile, non esiste proprio. Sennò alla prossima baruffa parlamentare di nuovo lì che ci si sputa addosso come sotto a un qualunque spalto calcistico. Ciarrapico. Ciarrapico me lo ricordo incasinato con la Roma, ma forse ricordo male, ah sì quello era Contini domenica alle quindici. No, Ciarrapico non esiste. Ma poi che vuoi, uno si distrae. Uno non fa in tempo a illudersi che… no, non c’è mai stato. Ora mi sveglio, sshh, dai che mi sveglio. Intanto mi sforzo, tutt’al più caco.




lunedì 10 marzo 2008

el miedo escenico è una pazza

Così nausea, brividi, mal di testa, pipì incombente, confusione, affanno, bocca secca, tachicardia, vuoti di memoria, pieni di stomaco, buchi, stacchi, voglia di fuggire, voglia di sparire, di sparecchiare, balbettio. Desde que el mundo fue pintado le pareti le soffitte e parimenti i pavimenti si sottopongono ai canali del ricevente tanto quanto il cicalare, notturno o diurno, del brusio che fa l’ambiente. Non appena il telo c’è la cordicella che lo tela via, lì si svela il gioco del pittore e il giogo cui pone garganta colui che del soggetto del pittar dichiara l’atto: l’osservatore e, ancor meglio specificato, il vivitore. Colui che più che partecipare del vivere – sarebbe scevro vivente – si fa unico condensatore dell’esperienza – oh vivere la scena! Così che quando il toro entra nella corrida s’inebria degli odori degli aliti degli astanti, formaggi, mais, vini, e quando torero entra en la corrida s’abbevera al tanfo lucido dei neri crini, e quando Corrado entra en la caiola – essendo egli pappagallo – gli pare il mondo a strisce di presenza e di assenza alternanti, e quando il gallo entra nel pollaio gli si rizza la cresta se a cantare e schioccare son pullanghe a lui solo destinate. E quando i reds entreranno al Meazza, oh porca mazza, avvertiranno olor di carne che starnazza e, mollata la corazza ché la faccia all’interista è già paonazza, glie faranno di ramazza con contorno di linguazza; dopo, solo dopo, siederanno sulla tazza a mirar la bella chiazza con non poca ubriachezza che, si consenta la franchezza, non è segno di crudezza quanto sia di prodezza. Pezza, pazza Inter.

domenica 9 marzo 2008

de dignitate rerum, etciclica! salute.


Dice che poi il potere temporale e spirituale e potere ogni volta che volere non dà alla testa. C’è il papa, questo figuro virgineo che ha il volto incriccato dal freddo e dalla tristezza, che dice che l’uomo appartiene al biocosmo ma lo trascende, e che rimane uomo con tutta la sua dignità anche quando è embrione o è in stato di coma (d’altronde il papa è uno che ha studiato, e certe cose le capisce, le istruisce, a volte inibisce – ma è freddo e tristezza). Però mi si dovrebbe spiegare, a me che non o studiato, l’esatta significazione del termine del verbo trascendere: o al meno quando è che l’uomo trascenda il biocosmo. Non è mica che ha a che fare con l’uso igienico di cui si usa in codesto blog igienico? E poi, dico poi, la dignità dell’embrione in stato di coma o dello stato di coma quando è in embrione, o dello stato delle cose e della cefalea che assassina la pace domenicale, o la dignità di una bugia per evitare impegni sociali di insuperabile – intracendentabile? – improduttività emotiva, o la dignità del vento freddo che contorce le facce facendole brutte e impapabili e intrascendenti, o la dignità della pillola dell’inmortalità che porterebbe a un inmondo mondo di vecchi (due più due fa quattro o zero?), o la dignità della società sportiva calcio napoli che dopo aver affondato l’internazionale della pirelli e telecom s’accinge ad affondare la buromacrazia? È poco degno, ad avviso munaciello, glissare su certune dignità nel mentre che si sbroproloquia su certaltre. Non che voglia correggere il papa, ma chiamarlo cazzone questo sì.



benvenuto al nuovo blog



Si festi! L’igiene personale è la prima virtù della civiltà occidentale, tanto che con la parola si definisce anche la condotta sessuale – civiltà occidentalcattolica! Io qui miro a detergere ogni fuoriuscita voluta o non voluta, attesa o inattesa, profumata o fetente. Non occorre mappatura. Sotto, al post precedente, c’è il bauletto con qualche estemporaneo frammento di cinema che mi porto dietro; a destra nella bara igienica rosa c’è quello che già c’era sul mio cazzone blog cannocchialesco. Qui a sinistra, invece, c’è nera merda fresca come puoi sentire.

Buon appetito.

mercoledì 5 marzo 2008