venerdì 27 febbraio 2009

arretrato secondo: harvey milk

Da Libmagazine di qualche tempo fa
Harvey Milk, o ogni minoranza
Harvey Milk, eletto nel 1977 supervisor (consigliere comunale) a San Francisco, è stato il primo gay dichiarato a raggiungere e occupare una carica istituzionale del paese che oggi ha il primo nero alla white house.
Gus Van Sant si ritrae. Nasconde le vibrazioni algide del suo occhio di “Paranoid Park” ed “Elephant” per focalizzare l’attenzione sul tema centrale che è oggettivo e trasversale alla collettività narrata e a quella che spetta il film, ma che non può dunque non essere intima. E lo fa bene, Van Sant, e ci riesce. Perché è dai tempi di “Will Hunting”, passando poi per “Scoprendo Forrester”, che non si aveva l’impressione di godere di scarni e smussati riflessi del regista, di colpi distratti e istintivi di palpebre forse stanche, sacrificandosi allora in nome di un tema più ampio. Un intento più forte della semplice denuncia dell’inspiegabile. Una volontà d’illuminare.
E allora il tema. Per quanto oggi risulti proficuo attenersi alla faccia ricca dell’omosessualità – e ai visini splendidi di Emile Hirsch, Diego Luna, o James Franco – bisogna tornare agli anni settanta e considerare Harvey Milk come portavoce di un movimento che come ogni minoranza debole lottava innanzitutto per conservare dei diritti civili minacciati, che lottava per una presa di coscienza collettiva, per l’unità che rafforzasse e indurisse gli individui persi, o deboli, o morenti. Anzi, ad essere cinici, non è innegabile una sufficiente dose di opportunismo politico nel gay più adulto, più intraprendente, che offre prima protezione sociale ai giovanotti deboli, e poi ne chiede il voto. Ma si tratta di politica, cioè di uomini che intuito un bacino lo spremono per raggiungere il potere. Lo stacco fra la cattiva e la buona politica è da sindacare solo in seguito, nel momento in cui cioè il bacino si sente tutelato oppure tradito dal proprio rappresentante. Ecco perché di Milk non si può mal pensare. Ma ecco anche il motivo per cui il film, con la tragica vicenda del consigliere assassinato, non può essere rapportato al presente eccezion fatta per certi bigottismi faciloni allora quanto oggi – ad esempio la propaganda puritana della cantante Anita Bryant, avallata dal senatore della California Briggs, che nella sostanza e nella forma fa il paio con le farneticazioni omofobe e altamente discriminati del boss della più antica pars politica italiana, Joseph Ratzinger.
E ancora, se il tema è la difesa dei diritti di coloro che, in minoranza, sono incapaci di tutelarsi da soprusi di qualsivoglia natura, è chiaro che l’attuale realtà della comunità gay non potrà rispolverare la vicenda Milk se non per considerarla alla stregua di un sacrificio fondante, di un atto strettamente cristiano che è alla base, in un passato lontano, della formazione della coscienza del movimento. Perché, sia chiaro, un movimento che – in maniera certo meno ruspante, folkloristica o fanciullesca, ma molto più capace di aderire alle leggi del sistema economico – non lotta più per conservare le proprie libertà, ma per guadagnarne di nuove mentre nel frattempo monopolizza di fatto, ma probabilmente senza averne pieno controllo, la pubblicità occidentale e vari settori economici ad essa collegati, non è più un movimento di minoranza in virtù del potere di seduzione che ha raggiunto. Ovvero, se la maschera omosessuale occorre allo stilista etero per garantire al mercato l’efficienza della propria arte, e se il cantante pop mima movenze effeminate per rassicurare il pubblico sulla sua apertura sessuale o sulla sua sensibilità, e se il modello maschile propinato dai media ha i muscoli artificiali e le sopracciglia smagrite e le cosce depilate, vuol dire che qualcosa è cambiato. La minoranza da tutelare è altro, oggi. Gli invisibili sono altri.
Sono quelli che non rientrano in nessuna categoria. Quelli al margine delle indagini di mercato: quelli cioè che per il sistema capitalistico non sono utili, e che non esistendo per la pubblicità che ne è il braccio armato forse non esistono affatto. Con un pizzico di pepe e sarcasmo possiamo dire che le Amelie del film di Jeunet, le sognatrici, sono una minoranza; che le donne che si pettinano da sole lo sono; le donne che vogliono partorire prima di lavorare lo sono; gli uomini che non si riconoscono né nel macho né nella checca, lo sono; o che addirittura i brutti oggi sono i deboli e minori culturalmente – a questo proposito si confrontino le fotografie dei veri protagonisti della vicenda Milk con i volti degli attori che li hanno impersonati: per quale urgenza gli attori sono tutti belli? Ecco, appunto. E diciamo allora, questa volta senza pepe, che la minoranza da tutelare è ogni minoranza che non sa di esser tale o che non ha il coraggio di ammettere il proprio disagio. Ora, solo ora, il Milk di Van Sant gira la giusta chiave: se ogni minore esce allo scoperto, se si imbastisce una catena di mani, prima o poi si diviene fronte. È chiaramente un discorso generalista. Ma proprio per questo è potente. I poveri, ad esempio, una maggioranza minore, quand’è che hanno smesso di parlare, di lottare, di unirsi? Quand’è che il pudore gli ha afferrato la gola e stretto la faringe? Forse quando il modello consumistico ne ha minacciato l’esistenza? Forse quando il valium dell’american dream ha preso a diffondersi anche nella vecchia Europa? Forse quando il comunismo li ha stuprati e abbandonati? Forse quando la carità ecclesiastica da carità per l’ecclesia è diventata carità per gli ecclesiastici?
Chiesto questo, nell’incapacità di risolvere la bieca questione, torniamo alle bellezze del cinema, al sogno, alla realtà aggiustata. E ammiriamo Sean Penn, il migliore attore americano, che ricorda De Niro solo nello smisurato controllo della mimica facciale, ma che lo surclassa quanto a capacità di crescita: come fosse egli un vino e l’altro un’aranciata, Sean Penn invecchiando riempie la sua faccia di argilla e schegge di piombo con pensieri alti, mentre De Niro gioca al poliziesco d’ospizio con Al Pacino o alla comparsata celebrativa ed eucaristica nei filmetti in cui investe i propri quattrini. Sia chiaro che De Niro, anche grazie alle mani di Scorsese, è stato immenso. Ma è evidente che Sean Penn, senza le mani di Scorsese, lo è già altrettanto. E in questo finale di Milk, nella scena dell’assassinio in cui torna per pochi istanti il miglior Gus Van Sant, quello che spegne la luce e inonda il personaggio di un flusso fluorescente che cade dall’alto e che scolpisce pochi riverberi in un mare d’ignoto, Sean Penn raggiunge picchi emotivi che solo lui negli ultimi anni, da regista di “Into The Wild”, era riuscito a procurare.

arretrato primo: italia-brasile

Da Libmagazine di qualche tempo fa
Italia Brasile, filosofie a sconfronto
A corrodere il tappo mediatico sono bastate la tragedia di Eluana Englaro, la connessa pantomima di Mentana, e qualche barbone arso vivo con nonchalance. Così alla fine, con o senza Cesare Battisti, con o senza Lula e La Russa, all’Emirates di Londra è andata in scena l’amichevole Italia-Brasile senza eccessive polemiche. Con una certa sorpresa nemmeno la definizione data al match da Falcao (“il derby del mondo”) ha solleticato la logorrea vaticana che avrebbe potuto scorgere in quel “del mondo” uno sbilanciamento verso l’ammissione di altre forme di vita nell’universo, giacché il concetto espresso dal “derby” ha significato solo se indica il confronto tra due schiere geograficamente individuabili entro una ben più vasta, e superiore, entità spaziale che coincide con gli spettatori. (Ops, entità spaziale?)
Allora s’è giocato. E la nazionale ha rimediato due bei ceffoni. Volendo essere sintetici questa riflessione potrebbe chiudersi nei due prossimi righi. Il punto è: gli europei hanno portato il pallone in Sudamerica, e i Brasiliani gli hanno strappato il cuoio. Ora provate un po’ a contendere il campo a ragazzotti mulatti che calciano aria con delicatezza, precisione, ed eleganza di movimenti. Il calcio è abitudine popolare quanto la divinità; e in quest’ordine estremo s’ammetterà che i brasiliani posseggono le navate meglio affrescate, i transetti più luminosi. Per contro, la nostra storia sportiva dal dopoguerra in avanti – e cioè da quando la pratica bellica s’è fatta professionale, e lo spirito di rivalsa nazionale volente o nolente si fa veicolare dallo sport appunto, e dal calcio in particolare – ha confermato lo stereotipo dell’italiano codardo che solo quando la cacca, ormai alle ascelle, gli impedisce di sollazzarsi d’arte, donne e santità, inizia a combattere spiazzando l’avversario con uno scarto d’orgoglio – o, tatticamente, con un cambio di ritmo. Sport e guerra a braccetto. Ma, diamine, Italia-Brasile è un’amichevole e gli azzurri lo sanno quanto i verdeoro. Solo che questi ultimi sanno calciare l’aria meglio dei nostri a parità di sorriso. È in qualche modo questa la loro religiosità, il juega bonito. Così, sorridendo sorridendo, fra una bicicletta e un paso doble, fra un tacco, un velo, e un no-look, s’impossessano del rettangolo con andatura da libeccio. Forse tranquillizzano, di certo assopiscono. E poi, come faceva il miglior animale d’area degli anni ’90 dotato del peggior veleno mai prodotto da piedi terrestri, Romario de Souza Faria, in una frazione di secondo tirano fuori la testa dal cesto e azzannano alla gola. Gli azzurri sorridono, mosci, parrocchiali nel loro buffo tentativo di rispondere al tacco volante e al controllo gommoso della sfera: gli europei hanno ancora contatto col cuoio. Però che palle il sorriso! E che bontà il tonfo del cuoio, il suo stridere sul prato coperto solo dal suono acuto di una scivolata maligna!
E chissà in quale voluta del fumo d’un sigaro, nell’intervallo gli italiani capiscono che l’amichevole è territorio brasiliano per filosofia. E s’incazzano. Tornano in campo meno carioca e più argentini, ovvero punti da quel nascosto valore mitologico che affonda filamenti dietro il colpo ben assestato sullo stinco di chi ti irride sambando. È un’altra partita: Pirlo la smette di farsi affascinare dai suoi capelli quando cambia direzione; Pepe è fortunatamente fuori come, altrettanto fortunatamente, lo sbarbatello Gilardino (costui, un uomo un diminutivo); dentro Toni, Rossi e Camoranesi, gente cattiva, gente un po’ tedesca, un po’ americana e un po’ argentina. Non si ride più infatti: Zambrotta rimbrotta il cittì Dunga, e i ragazzi lottano per briciole di pane e poche righe di sale come va fatto in ogni cancha. Tant’è che il secondo parziale si conclude zero a zero, e tutto è rimandato a quando il divario fra vittoria e sconfitta, ai mondiali del 2010 in Sudafrica, non consentirà troppo margine d’arzigogolio. Come sempre questione di cacca, certo. E di ascelle basse.

lunedì 23 febbraio 2009

s'è scapezzato oreste lionello: woody a pezzi

La morte di Oreste Lionello farà a pezzi Woody Allen più di quanto fosse disgregato il suo “Harry a pezzi”. Lo disarmerà di uno degli strumenti con cui l’attore opera l’arduo congiungimento fra la sua identità e quella del rappresentato: la voce. E che lo si voglia o no anche questa sciagura è una conseguenza del ventennio in camicie nere.
Il protezionismo culturale dei regimi fascisti in Italia e in Spagna ha imposto il doppiaggio dei film in lingua straniera proprio nel momento in cui il cinema s’accingeva ad essere riconosciuto come forma artistica, e un istante prima che s’affermasse come forma artistica fra le più popular. La nostra platea è stata dunque foraggiata di voci impostate, trattate con unguenti e pomate, recitate con solennità toscaneggiata al microfono buio di una saletta e poi montate sulla pellicola dei maestri francesi, spagnoli, americani. L’immediata conseguenza è stata una certa impreparazione di massa alla lingua straniera proprio per noi, Italiani, che sempre fummo a districarci tra ispanici, arabi, germanici e franchi. Impreparazione che, a differenza del nord Europa in cui c’è la sottotitolazione, provoca ulteriormente una “nuova” intolleranza (“nuova” in considerazione della nostra storia mediterranea) per il diverso o l’incomprensibile che non può essere scissa dalla disabitudine alla lingua straniera. L’ultima conseguenza è invece la mutezza di Woody Allen.
L’attore ha il compito, in contrasto con la realtà di finzione nella quale si muove, di convincere della fedeltà dello schermo, o quanto meno di com-muovere ad esso. Su queste due distinte vocazioni si fonda la differenza fra il successo popolare degli attori che esprimono, e il successo altrettanto popolare degli attori che vengono espressi; tra Sean Penn e Brad Pitt, per intenderci, o tra Servillo e Scamarcio. Ma il caso di Woody Allen è estraneo a questa dinamica perché, in rispondenza alla sua autarchia “morettina”, non esiste confine direttamente percepibile fra il rappresentante (l’attore), il rappresentato (il personaggio), il regista (l’architetto, l’autore del tratto del disegno), e lo sceneggiatore (colui che concepisce il disegno, il padreterno appunto). Proprio per questo la voce di Oreste Lionello è divenuta negli anni forza di gravità in Italia di un mondo che si presenta e si muove ed è Woody Allen. Indubbiamente sarà disponibile un altro doppiatore capace di balbettare, di accelerare e decelerare con violenza, di raffreddare il timbro. Ma quella simbiosi tutta strutturata di frenesia e inquietudine intellettiva, di squarci di debolezze e scivolate di cinismo, è stata fra Allen e Lionello un miracolo tecnico: il doppiatore non fa, ma è la voce. E se è la voce, il doppiatore è un pezzo. Forse quello principale: si tratta della gravità che radicava, ad esempio, Bob De Niro al fiotto rustico e sanguigno di Ferruccio Amendola e che, alla scomparsa del doppiatore, si è sfibrata come una muraglia di sabbia asciutta. Tanto che oggi, complici alcune scelte poco opportune, lo schermo non si rimpicciolisce più, come faceva un tempo, quando a recitare c’è De Niro. Così difficilmente ci sarà un doppiatore capace di sostituire Lionello, e non ne deriverà che una toppa cucita su una lacerazione della tela che a ogni attenta e partecipata visione non potrà camuffare i segni dell’ago e del filo, e i pezzi del Woody a pezzi.