lunedì 21 luglio 2008

one eyed jacks, or straight to number one

Proprio pochi minuti fa ho chiuso un racconto lungo, o un romanzo breve, sul qualche mi storcigliavo da quasi un anno o da appena pochi mesi. Non so più. Mi fa male la nuca, il collo vibra, dev'essersi svuotato. Sembra ogni volta più quello che si perde che quello che resta. Ed in fondo è giusto così. Fra poco me ne vado. La baracca si riapre più tardi possibile. Ora...

touch and go - straight to number one



Vado dove devo vedere e rivedere il dovere.
Cercando una strafottenza arrogante.
Vivendo nel vetro gelido dello zucchero.
Nelle torture e nelle lingue dell'alcol.
Nella canzone.

Trionfi pure il pop!

sabato 19 luglio 2008

appunti

All’inizio la saliva estranea provoca un fastidio dolcissimo. Le labbra schiuse, mai osato petali così. Scoprire che l’oscurità esplora più gradazioni di rosso, arpioni ed enigmi, ambivalenze e magnetismi… Poi la lingua, la prima volta è intensamente terrestre. Ogni lumaca le è fedele. Scivola, s’adagia. Ed ha sopra, dove le dimensioni sono friabili per l’umida mollezza, come una strofa d’echi...
La natura delle finzioni potrebbe smettere d’essere tale. Quale è di preciso il nodo, se c’è, fra natura e finzione? L’imitazione ha pochi pregi e troppi demeriti. Percorribile finché lo sguardo non si fa eretto. In quel momento ogni piana gli stringe la gola perché domina la sua indole una necessità di penetrazione. La finzione è l’imitazione di un panorama interno.


venerdì 18 luglio 2008

appunti

(Una giovane insegnante d’anni fa insegnava a estrarre dalle palpebre colorate gli aspetti fisici della musica) Cosa che palpita vuole arachidi e vino bianco, non ossigeno. Chiusa nei luoghi neri, nelle curve ruvide dell’intestino, palpita. Una penna affilata scava chirurgie. Una penna rozza scortica la pelle. Un palpito dovrebbe uscirne {C’è un labirinto [Borges dovrebbe ungersi le mani e pararmi la pippa. Condizionale sacrosanto. Eppure l’architettura mi sconvolge la pigrizia (non so come facesse il pigro argentino, solo per questo gli negherei la varra: sacrosanto Luis, ritieniti libero per il weekend – faccio da me)] ma il labirinto percorso da un cieco è l’eccezione del labirinto. L’equivoco deve farsi sonoro, interno, finalizzarsi. L’equivoco interno non è più equivoco, ma malattia. La malattia è voglia di crescita. Il labirinto è una culla} Attendo suggerimenti di sordi tedeschi. [Una giovane insegnante d’anni fa insegnava a estrarre dalle palpebre rosse gli aspetti fisici della musica: Dio(niso) l’abbia in cura!]

lunedì 14 luglio 2008

e venne il giorno, su libmagazine

Solo sul finire di giugno, in prossimità del giorno di San Giovanni, alcuni insetti simili ai melolontha-melolontha (i maggiolini) conducono la loro breve ma intensa vita. Sono a Napoli popolarmente noti come vaccarielli di San Giovanni. Appaiono dal nulla quando il sole tramonta, danzano presso gli angoli delle case alte, vicino alle cime degli alberi s’impacciano per accoppiarsi. Spariscono assieme al sole, e tornano solo il giorno dopo, per pochi giorni. Sembrano stonati, travolti dalla fretta e dagli impulsi primitivi, e spesso precipitano al suolo a grappoli con un secco rumore di crosta. Un po’ come gli uomini di “E venne il giorno”, l’ultimo film di Night Shyamalan, si buttano dai grattacieli newyorkesi uno via l’altro: succede che le piante minacciate dall’uomo prendono a produrre e a rilasciare nel vento, previa comunicazione tra loro a mezzo dello stesso, una tossina inibitoria del naturale istinto di sopravvivenza. L’uomo ne è stordito, allucinato, sottratto di volontà s’ammazza. Il film è il racconto di ventiquattro ore di fuga dal vento verso la provincia americana, in un cammino che gradualmente si avvicina alla verità senza mai toccarla a piene mani. Proprio questa leggera elisione conclusiva annuncia la crescita di Night Shyamalan. (Leggi tutto qui, però lèggilo)

venerdì 11 luglio 2008

Llanto en muerte de Don Emilio Fidel












Parleremo oggi di un granello di rimmel avariato – ...un vecchiaccio reazionario subdolo e malizioso… una colonna fecale portante… una turba bubbonica della comunicazione… – del torero Don Emilio Fidel. Quando il toro entra nell’arena è una lotta di colori: il nero trafigge il bianco del sole meridiano, il rosso rincorre e acceca, las banderillas engaňan: la sangre triunfando. Noccioline plaudenti, dentiere scoppiettano nei bicchieri, i divani sussultano, le pantofole sudate effondono auricchi: è arrivato il torero Don Emilio, la penna della pubblica morale, la sua pesante piuma, il vessillo, il possessore del solo verbo vero. Con aria truce il chicco di rimmel – naranja de Barcelona – dice che l’amica della povera bella accoppata in Costa Brava non la canta giusta. Quel suo “ora sono stanca, devo riposare” non canta giusto. Il torero le misura i passi, le scruta l’occhio e la naserchia: appronta la nerchia. Minchia de la Mancha, il giornalismo è religione e il microfono è totem! Il vero è tale solo ove (rap)presentato, solo nel tramite del sacerrimo cavo o catodo il vero è vero – lo sanno finanche gli ospiti di Auschwitz! Il torero Don Emilio non tollera, il torero. S’approssima alla ragazza, le danza il perimetro, coccola la brezza, calcola la brezza e – zac! – affonda la lama nella carne dura e ammalata: la ragazza… come può ora riposare mentre l’amica è morta? Forse esattamente come ha potuto lasciarla sola col mostro gordo a tre teste? Il torero Don Emilio insinua, scandalizza, atterrisce, calpesta le vie violente pintàndolas de rosas. La annienta. La sua platea di dentiere si cuoce nell’odio e nelle trame brutte. Il suo pubblico di zoccoletti in pensione e zoccolacce neofasciste osanna in olas la purezza dell’uccisione mediatica. Ogni invadenza morale è giustificata dalla appartenenza a cerchie moralmente indiscusse. Rimmel a sbafo nell’arena. Rena naranjata. Storia imbellettata, sacrificata all’altare di madonne puttane, e giù l’applauso degli impotenti con la scuppetta sotto al materasso. Don Emilio elegante freme, non teme. Conosce la virtù. Conosce tutto e il tutto applicato al tempo. È destinato a seggi celesti. Che il suo dio lo maledica. Che gli piscino sulla lapide intere popolazioni di cascanti lebbrosi. Che il vento corrotto dei morti gli perseguiti il cadavere e i suoi vermi, lo scheletro, la cenere, il nulla di odio e rimmel di cui è composto.

Viva el toro!
Muera Don Emilio!

mercoledì 9 luglio 2008

limerick a lloret de mar con mossos d'esquadra

Qui si gioca così:

Grattugia bronchi secchi l’editore:
d’estate la sua carta annetta i culi
a tizi che schiumati dal calore
d’acume e d’occhio son già vecchi muli.

Eppure come buco di formaggio
ti crepa puntuale verginella,
che dal suo osare dedica foraggio
all’indagar se il mostro ami la bella.

Garlasco fu, Lloret col grande mare,
a risvegliar di Laura il declinare:
un’esistenza doppia... tripla... tombola!
la maschera per lei, per l’editore fecola!


el munamuna

lunedì 7 luglio 2008

E se l’angelo sterminatore fosse già lì?



La borghesia, classe di mezzo per eccellenza, laddove non ha agito da puntale adeguatamente alle insofferenze dell’intera società ha dovuto subire e accettare l’azione critica degli artisti. Benito Pérez Galdòs, ad esempio, e Leopoldo Alas detto Clarìn, instaurarono un dialogo le cui voci erano i rispettivi romanzi per scuotere la borghesia spagnola di fine Ottocento, affinché questa si gravasse dell’onere e della responsabilità della crescita della Spagna. Un secolo dopo, Luis Buňuel, spagnolo adottato dal Messico, filma uno dei suoi lavori più emblematici e significativi: “L’angelo sterminatore”, tratto dal lavoro teatrale “Los Naufragos” di Josè Bergamìn.
Dopo una serata a teatro una famiglia dell’alta borghesia (spagnola o messicana) invita a cena alcuni ospiti, ma senza che alcun motivo venga esplicitato la servitù se ne va in tutta fretta, ad eccezione del maggiordomo – che, si sa, del personale è il più adiacente al buon modo borghese. Da quel momento si susseguono stravaganti eventi senza che nessuno dei presenti, almeno inizialmente, ne indaghi ragione. Dopo cena gli invitati si riuniscono nel salone e, ancor più inspiegabilmente, lì si accampano per la notte, e così faranno per i giorni successivi, in una paralisi d’animo che li porterà sull’orlo della disperazione, nel fetore, nell’aria malsana, nell’assenza di vivande.
Il film fagocita lo spettatore usandone gli interrogativi, e ponendolo quindi su un piano elevato rispetto all’apparente e volontaria cecità dei personaggi, tuttavia la complessa tessitura simbolistica non è accompagnata da inequivocabile chiave interpretativa, e la sterilità della domanda, propria dell’attore, si contagia magicamente allo spettatore risucchiandolo nel surreale. A voler decifrare il simbolo si direbbe dell’immobilismo borghese, qui oggetto di amaro scherno più che di caricatura, che del tutto privo di sangue induce gli uomini a intraprendere discussioni completamente estranee alla realtà, azioni senza senso, scollegate dalla più ovvia causa e dal più elementare fine. La borghesia, ammesso che questo siano i manipoli di attori che zoppicano nelle trame illogiche sulla scena, è immobile perché sazia, svogliata perché assisa su d’un trono stabile, presunto, vischioso. Il terrore di abbandonare la sala in cui tutti ormai vivono è il terrore di chi non crede che a ciò che vede, che sente, come se il mondo e la realtà si fossero ridotti all’immediatamente sensibile (quell’unica stanza). E i singoli individui si riducono ad un futile bagaglio di esteriorità del tutto prive di coscienza: come non esistessero in quanto tali, in quanto individui. Come gregge. D’altronde siamo nel 1962, e il ribollio del ’68 non aveva certamente vincoli di calendario.
Ciò che sblocca è l’interpretazione del momento in cui l’ingranaggio si è inceppato. È la recita, è il teatro: i personaggi riproducono fedelmente ciò che avevano fatto la prima sera, dopo cena, prima che l’amorfa paura li bloccasse in quella sala. Ma non c’è sortilegio né catarsi. È semplicemente il potere persuasivo della scena che sblocca la collettività. Tuttavia la sequenza conclusiva – un gruppo di fedeli, fra cui i medesimi borghesi di sopra, resta assieme anche ai preti nella chiesa con la stessa dinamica della precedente paralisi – finisce per insinuare che il disegno di Buňuel non si limita solo alla borghesia. Che inevitabilmente da lì si genera, ma che contagia né più né meno di quanto il film prenda lo spettatore (inspiegabilmente attratto dall’inspiegabile). D’altra parte fuori allo stesso palazzo in cui i borghesi erano a cena s’era già riunita una piccola folla di curiosi a malapena trattenuti dalla polizia, e pur interrogandosi sul mistero nessuno agiva. Allora questo resta: la mancanza di azione. E un buon contorno di conformismo. Tanto che viene da pensare, sapendo l’anticlericalismo di Luis Buňuel, che l’angelo sterminatore sia più che un simbolo religioso sacrificato alla comprensione immediata del pubblico, un simbolo civile completamente figliato dalla classe borghese, ma che, a visione del regista, va a minacciare l’intera società. L’angelo sterminatore è il conformismo. E la mancanza d’azione, l’immobilismo, non sono conseguenze ma coincidono con lo sterminio, poiché è chiaro che la storia dell’essere umano è solo in virtù del movimento. Allora lo sterminio non è quanto promesso, ma quanto già accade.
Ciro Monacella
Da Rapporto Confidenziale n°5 (maggio 2008)

domenica 6 luglio 2008

L’automatismo non mi soddisfa. O meglio, fottere col profilattico. Va bene quando basta un brivido a sprofondare la terra, appunto, una emersione giovane. Simile agli sbuffi d’incontinenza e alle irruente orinate notturne. Invece credo che ogni forma, allorché la vanità automatica sia scartata – … no… l’azione che "scartare" chiama è composta e consumistica, da frigida commessa di reparto profumeria, del tipo con le narici abrase ormai incapace d’attenzione clitoridea – quando la vanità dell’automatismo viene scavata, spellata, deinteriorizzata, in qualche modo abbruttita, allora ogni forma è un atto di cosciente fedeltà all’innesco, lontano e d’orizzonte, dell’atto stesso. La verità di ogni automatismo è macellata se non viene responsabilizzata. Deve esserci un rapporto fra elettricità e conduzione. Non per forza una proporzione. Per rapporto intendo uno scambio di funzioni. L’abbruttimento (esso è una deturpazione in quanto riduzione del fatto puro a semplice frangente connettivo) di ciò che automaticamente s’è dato consiste nella capacità di individuare dell’elettricità il più adeguato conduttore secondo dinamiche che nessuna natura ha previsto. Si può tollerare, ben venga, la conduzione zero. Si può tollerare la tempesta. Ci si può illudere che una forma sia la forma, la nostra forma perpetua. O si può graffiare la disperazione in continua ricerca della propria forma. Si può conservare, o esplorare. Ma in nessun caso si deve star fermi. L’automatismo rasenta la palude.

sabato 5 luglio 2008

No, no. Immotivando negazioni si contrasta il sole. Negando motivi no, è il contrario luminoso. Iniziare col no. No, non si può. Non senza… senza cosa se non senza me? Lambisco ormai di tangente lo scoglio d’osso che a dolce assorbito promette, dietro terra, il frutto. Come singhiozzare, cercare… se possibile tornare… riassaporando la mutezza altrui tornare alla nebulosa elettrica. Un decoroso ciao di palmo, farlo schietto, fine quanto piombo. Sostare troppo a lungo nel mondo degli altri – che s’è definito realtà… ma già quel troppo esaurisce il concetto – mi fermo. Cinque righe e mezzo di sincerità possono bastare a chi ha alle spalle terra smossa di fresco – “deve aver sepolto… è naturale, ambo le cose è natura”. Sei righe di sincerità sull’incapacità della sincerità (che non può, non sa, non ha potere) o dell’esser sinceri (che non può più, che ha dimenticato, che ha un lampo inghiottito). Sette righe per descrivere a se stessi quello che s’è saputo solo attraverso queste.
Credo ancora di avere qualche legame con l’elettricità. Non è una moda. Neppure una finezza. È una trattativa segreta fra vita e morte, non senza sesso, non senza dolore, non senza estasi, con sesso dolore ed estasi, questa di avvertire vincoli con organismi che sarebbero i più perfettamente svincolabili. Credo che inizi a mancare l’esercizio, o il prefisso auto, che è uguale. Otto righe abbondanti per allarmarmi sul pavimento vischioso che va al degrado o al semplice disallineamento dall’essenza e dall’istinto. Quando si viene al mondo, indipendentemente dal momento, ci si inizia a perdere.
ossession
l’ansia mangia l’ultimo sonno e
l’ultima vocale

martedì 1 luglio 2008

sulla poesia, catena

L’incatenatore è Giorgio. Non posso esimermi. Ma, visti i suoi gusti, e sapendo i miei, gli darò dispiacere.
Il primo punto è l’elenco dei nomi di cinque poeti di cui si è innamorati. Questa non è l’epoca della poesia: la poesia è un balzo senza protezione, una scelta totale senza compromessi; questa è l’epoca dei compromessi; questa non è l’epoca della poesia. Inoltre, il mio tempo soggettivo non è il tempo della poesia. Il tempo della poesia è il momento d’ebbrezza soggettiva, forse l’adolescenza. Questa epoca è l’esaltazione della facilità compositiva, e il mio tempo soggettivo ne risulta intossicato, nauseato. L’istruzione bene o male impartita e ricevuta, la cancellazione dell’analfabetismo, ciò potenzia ogni singola voce: legittima alla penna. Ciascuno può indagare, stendere – ancor più che la forma è aperta o disintegrata. Questa epoca generalizzando la poesia l’ha uccisa. I cinque nomi che faccio sono allora scorie del mio tempo vergine, quello in cui ero io solo con il libro, candele e spinelli adolescenziali, nuovi condotti: Verlaine, Rimbaud, Gòngora, Garcia Lorca, Neruda (ah si indigna il bel Giorgio!), il Rafael Alberti di Sobre Los Angeles (non il trombone comunista). Ma non sono amori né innamoramenti. L’amore è necessità di prendere e penetrare. Forse solo in Lorca entrerei.
Il secondo punto vuole che si citino versi dei poeti di sopra. Inizio con Explico Algunas Cosas, da “Espana En el Corazòn” di Neruda, della quale metto solo inizio e fine per ragioni di impazienza mia cronica:
Chiederete: ma dove sono i lillà?
E la metafisica coperta di papaveri?
E la pioggia che fitta colpiva
Le sue parole, riempiendole
Di buchi e uccelli?
(…)
Generali
Traditori:
Guardate la mia casa morta,
Guardata la Spagna spezzata:
Però da ogni casa morta esce metallo ardente
Invece di fiori,
Da ogni foro della Spagna
La Spagna esce,
Da ogni bambino morto esce un fucile con occhi,
Da ogni crimine nascono proiettili
Che un giorno troveranno il bersaglio
Del vostro cuore.

Chiederete: perché la tua poesia
Non ci parla del sogno, delle foglie,
Dei grandi vulcani del paese dove sei nato?

Venite a vedere il sangue per le strade,
Venite a vedere
Il sangue per le strade,
Venite a vedere il sangue

Per le strade!

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Continuo e finisco con La Aurora, da “Poeta en Nueva York” di Garcia Lorca:
L’aurora di New York ha
Quattro colonne di fango
E un uragano di negre colombe
Che guazzano nelle acque putride.

L’aurora di New York geme
Sulle immense scale
Cercando fra le lische
Tuberose di angoscia disegnata.

L’aurora viene e nessuno la riceve in bocca
Perché non c’è domani né speranza possibile.
A volte le monete in sciami furiosi
Trapassano e divorano bambini abbandonati.

I primi che escono capiscono con le loro ossa
Che non vi saranno paradisi né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e di leggi,
nei giochi senz’arte, in sudori infruttuosi.

La luce è sepolta con catene e rumori
In impudica sfida di scienza senza radici.
Nei sobborghi c’è gente che vacilla insonne
Appena uscita da un naufragio di sangue.

Il terzo punto della catena chiede un proprio componimento. Fino ai diciotto diciannove anni avevo dimestichezza con poesie incolte. Consideravo la poesia un servizio di scolo per eccessi d’identità, come se la scrittura consistesse in una cancellazione. Ho quaderni e quaderni di lampi che restano sepolti dal pudore, che si nutrono del buio e ne dipendono. Un immenso ginnasio d’immagini. Apro un quaderno a caso, ci sono disegni di calciatori, sparatorie diciassettenni, e c’è:

Veste su veste
Manna su manna

Bestie dal parto docile
Sodomizzano vergini agri

Fiato sfrontato
Derma accaldato

Gli uni sugli altri
Cedono i rami
Dai troppi frutti

Sbarcano su mari
D’uomini le terre
E la pioggia è sudore
E la pioggia è sudore

Il quarto punto della catena richiede un componimento brevissimo appositamente creato e pubblicato. Poche sere fa provavo a sgambettare in bici nella periferia napoletana finché ho capito che necessitavo di una preparazione di tattica militare ed adeguati strumenti topografici: i cumuli di immondizia vanno affrontati solo in ripida discesa: trovare percorsi che permettano salite pulite: scansare le strade che collegano i piccoli centri: sono discariche inconsapevoli. Avevo intenzione di scriverne un post. Ma credo che sia una buona occasione per la penultima mia poesia (mi riservo l’idea dell’ultima poesia per quando non avrò più affanni):

Notte fresca,
putrida notte fresca.
Verdi digestioni dei neonati
incollano all’asfalto il sebo dei pini in agonia,
spine di latta, birra a pisciate, ombre di spigole
spicchi d’ombra.
Intestini di lattughe vestono ruggine,
ogni umore ha un materasso ingravidato
quando tre cani freschi
- putridi cani freschi
pelli di lana antica e costole d’ottone-
specchiano nell’olio delle narici
un odore d’abbondanza
in disadorna morte.