lunedì 22 dicembre 2008

astensionismo come artiglieria, su libmagazine con rosetta e romeo


La furfanteria con cui i politici facenti capo a fazioni avverse si dilettano di scherma in pubblico procurandosi punture dalle finalità propagandistiche è smascherata, e ne assume nuova e veridica proporzione, dalla buona disposizione che costoro, pur formalmente avversi, si scambiano nel partecipare ad affari e spartizioni che è bene restino occulti.
Soprattutto nei confronti della platea televisiva l’inimicizia, brandita come un’idea e al contempo spinta al limite del rancore personale, svolge la funzione propria delle maschere: al tratto pesante, o caricato appunto, corrisponde un tipo civico dalle certe fattezze, il quale a sua volta, più che rispondere, ha l’onere – dettato da un senso di correttezza verso la propria coscienza storica, dunque un onere percepito come alto, e talmente alto da non essere percepito affatto – di rintracciare nella maschera i caratteri che lo rappresentino. Si dà per ovvio, intrinseca nella funzione teatrale del trucco, che nascosta da maschere di opposto colore ghigni identica mimica. Il tal modo si perfeziona – poiché reso estremamente naturale, cioè proprio della natura dei soggetti che vi agiscono – un progetto disperato teso a prolungare a tempo indeterminato l’ultimo rantolo di una classe politica che ha saputo reimpostare se stessa, caduta la secolare contrapposizione fra spirito liberale e spirito democratico, convertendosi in un invertebrato e onnivoro amalgama (giusto per usare una parola di moda).Ogni inasprimento di tono dialettico, ancorché declini nei tempi più recenti verso un malizioso gioco d’osteria, ha l’esito formidabile di marcare territori politici fondandone i termini non più su scelte ideologiche e opinabili e certe, ma su ragioni di una sympàtheia non tanto istintiva, individuale o intima, quanto pubblica, manierata, istituzionalizzata. Un gioco, s’intende, dal quale non sottraendosi nessuna parte politica, poiché gli uni traggono identità dai vizi degli altri, può essere definito senza esitazione come politica del vizio.L’efficacia di tale sistema risiede interamente nella capacità che esso ha di riuscire ancora a stimolare una, benché minima, partecipazione della cittadinanza alle sue logiche, le quali tuttavia non sono più positive, ma negative. Ciò che infatti si propina è la cancellazione di eventuali mali annidati nella parte avversa indipendentemente da quanto la propria parte sia in grado di produrre quando non, addirittura, di promettere. Ad esempio, le sequenze di dichiarazioni che l’informazione nazionale offre, con distrazione nel mittente pari solo a quella del destinatario, riescono a celare la distrazione stessa del messaggio attraverso l’autorità del canale comunicativo. Ma quando centellinate, tali dichiarazioni, non serbando nella propria forma alcuna potenza produttiva, svelano la loro fastidiosa consustanzialità con una cultura del pettegolezzo che ha l’effetto mirato di stordire oppiaceamente l’elettorato, di istigarlo, di ravvivarne antipatie di classe o desideri di rivincite sociali e culturali. S’evince con chiarezza che l’unica ragione di sopravvivenza di tale meccanismo va ricondotta alla partecipazione elettorale: ciò che in teoria fornisce legittimità rappresentativa, nel momento in cui i metodi con i quali essa si fa disponibile sono ben attigui a un certo basso istinto scandalistico che schiuma dalla società dello spettacolo e dal voyeurismo popolare, giunge a legittimare il gioco stesso prima che i giocatori.Ma il gioco ha una natura elitaria almeno quanto l’élite ha una natura effimera poiché estremamente relativa: cioè essa è, ed essa s’erge, in virtù dell’esistenza di una maggioranza che le soggiace in sostegno. La crepa nel sistema ludico-politico italiano va quindi individuata nella sua incapacità di presagire come la maggioranza che la legittima (sia in quanto élite che in quanto rappresentanza elettorale), una volta resasi conto del vortice di raggiri a mezzo del quale i suoi orientamenti vengono manipolati verso una parte di nebbia piuttosto che la sua contraria, possa decidere di ribellarsi alla nebbia stessa, al gioco, al divertissement, adoperando – e paradossalmente smettendo di farne uso – l’unica arma che abbia il potere di danneggiare effettivamente ciò per il quale la sua presenza è richiesta: l’esercizio del diritto al voto. [leggi tutto]


sabato 20 dicembre 2008

rapporto confidenziale

Per il numero di dicembre, appena uscito, non ce l'ho fatta a scrivere. Dunque il numero sarà venuto senz'altro meglio. Sotto posto l'articolo uscito sul numero di novembre.

Sottrazione d'epica: Il mestiere delle armi

Carlo V eredita per la politica matrimoniale dei suoi avi mezza Europa. Gli si muovono contro per questioni religiose – è impetuosa l’avanzata del protestantesimo – o strategiche – la Francia, ad esempio, si ritrova accerchiata da territori ereditati o conquistati dall’asburgo – i sovrani dell’altra metà d’Europa. Alla battaglia di Pavia (1526), in cui Francesco I di Francia è sconfitto dalle armate imperiali di Carlo V, segue una pace immediatamente interrotta dalla formazione della Lega di Cognac che vede alleati contro l’imperatore il papa Clemente VII de’Medici, Enrico VIII d’Inghilterra, il doge veneziano, e lo stesso Francesco I. Per punire il pontefice e per rompere, con abile mossa politica, il gioco strategico del facile voltafaccia nelle alleanze in nome dell’equilibrio fra le potenze, Carlo V fa calare verso Roma le sue truppe mercenarie, i Lanzichenecchi, sotto il comando del generale Georg von Frundsberg.
È questo lo scenario da cui muove Il mestiere delle Armi, film diretto da Ermanno Olmi nel 2001. La narrazione avviene con pulizia e delicatezza tramite un susseguirsi di fotogrammi che sembrano tratti da quadri con un movimento leggerissimo almeno fino a che non intervengono spinte nuove, in qualche modo distruttive se non finali. Il suo protagonista infatti, Giovanni de’Medici (Giovanni dalle bande nere, poiché per sorprendere i tedeschi anche di notte aveva fatto imbrunire le armature dei suoi), è al tempo stesso uomo d’azione e ultimo cavaliere in un’epoca che la tecnologia avvia inesorabilmente al cambiamento. Il suo mestiere, l’arte della guerra, rappresenta non tanto un ideale, poiché l’idea è un dato conseguente ad una dimensione oziosa o pacifica, quanto piuttosto l’unica condizione. Come un ordine interiore, tragicamente collidente con il disordine che la politica del tempo, raffinata e certificata dal “Principe” di Machiavelli, impone quasi a destrutturare, e indubbiamente a complicare, le vecchie faccende d’armi medioevali dove il bene era sempre, in maniera netta, contrapponibile al male. L’assoluta disposizione all’azione di Giovanni de’Medici è dunque il rifiuto per le nuove logiche che disciplinano la storia tracciando viottoli angusti fra le sterpaglie di un’inattesa arte che egli stesso riconosce pur senza accettarla: la politica appunto. È in nome di essa allora, e di piccoli individualissimi tornaconti, che i suoi alleati recidono, con esiti funesti, quella linea muta su cui in altre regioni europee andavano formandosi gli stati nazionali. È in nome di essa, allora, che la penisola italiana sacrifica un flebile sentimento unitario – seppure malamente centrato sull’anomalia del potere temporale della chiesa romana. Così il marchese di Mantova Federico Gonzaga, un puttaniere poco più che un primate, lascia passare i Lanzichenecchi. E così il duca di Ferrara Alfonso I d’Este offre agli stessi quattro pezzi d’artiglieria guadagnandoci il matrimonio fra suo figlio e la figlia di Carlo V. La politica, la scienza del potere che coincide col farsi i fatti propri, incide, con questo acuto individualismo, su ogni forma di contratto palese poiché ne cela mille altri ancora con spirito furfante. Giovanni forse intuisce, ma non si sorprende. Riconosce, ma non accetta. Il suo stato di ultimo cavaliere è testimoniato dalla foga, una rabbia virtuosa composta di nobiltà e violenza, con cui egli continua ad assaltare le retroguardie alemanne allo scopo di rallentarle, disorientarle, sconfiggerle. L’uomo e il cavallo posseggono già il germe della ferocia e dell’annientamento, certo, tuttavia ciò rimane in una dimensione a misura d’uomo. Quel germe conserva il rispetto di formule geometriche per le quali il coraggio prescrive la possibilità della gloria, nel lecito omicidio di battaglia, richiedendo come scotto la disponibilità a rischiare del proprio, ad offrirsi in gloria dell’avversario. Due uomini che si affrontano, per Giovanni dalle bande nere, corrispondono a due volontà di uguale intensità e di opposta direzione. E l’atto dello scontro è un luogo in cui lo spazio e il tempo si forano, un luogo in cui agiscono solo quelle due volontà almeno fino a quando un corpo non si fa esanime.
È a questo punto che interviene la rivoluzione delle armi. I falconetti, pezzi d’artiglieria, sono non solo estranei a ogni epica, ma in qualche modo ne sono la cancellazione. La palla, scagliata da lontano e capace di perforare ogni tipo di armatura, raggiunge un uomo che non ha ancora avuto accesso alla dimensione anomala in cui si misurano i valori dell’animo nell’uno contro uno. L’uomo, di fronte all’artiglieria, smette di essere un soldato per diventare un bersaglio, smette di essere un cavaliere e diventa semplicemente un bersaglio a cavallo. Il mestierante delle armi non è più. Con esso la gloria si fa rachitica. La virtù resta inespressa e incancrenisce. Solo una beffa, a conclusione del travaglio immaginifico di ventri tortuosi e rogne di cani rubati ai quadri nella sala in cui l’eroe morirà, consente a costui di affrontare da solo, come richiamando disperatamente quel foro che gli era stato sottratto in battaglia, l’amputazione della gamba marcia. Ma è tardi. Le sanguisughe già fuggono la ferita. La storia compie il voltafaccia, e già si è nel moderno.

venerdì 19 dicembre 2008

giovedì 18 dicembre 2008

cinemuna: saw V


Discover White Zombie!

Germania 1989. Subito dopo la disgraziata caduta del muro di Berlino e, assieme, del comunismo, un giovane capomastro di origini campane s’impone a sorpresa nella disperata gara d’appalti per ricostruire il muro. Questo è il fondo a cui il regista torna più volte con un uso accecante del flash back, quasi a voler spiegare i motivi dell’utopia del protagonista – interpretato da un sofferente Totò Bassolino, privato, in questo ruolo, della sua consueta vis comica – che desidera una realtà più facile da leggere. Ma con uno scarto d’orgoglio il colpo di scena: il muro, pur ricostruito, non è tollerato dalle autorità tedesche, e Totò viene allontanato. Allora, di necessità virtù, il giovane muratore decide di tornare a casa sua e di portare con sé il muro per adagiarlo, di notte e nella cecità dei concittadini, attorno a sé stesso presso qualsiasi palazzo del potere nel quale egli vada quasi clandestinamente a dimorare. Riesce in tal modo a fabbricare un’autorità formidabile ma quasi invisibile, che proprio grazie alla sua opacità riesce a sopravvivere all’indolenza dei suoi sudditi i quali incappano in tranelli, buche, nodi vischiosi di reti, e finiscono per attribuire tali ostacoli ad una sorta di principio superiore retaggio di una certa filosofia ellenica. È in gioco la sopravvivenza. Un gioco duro che Totò gestisce separato dal mondo che abita grazie alla solidità di un vecchio muro di cui nessuno, per quanto forte questo sia, sa con precisione le coordinate geografiche. Il muro potrebbe essere proprio lì, accanto a uno qualunque degli spettatori: ma le sue sembianze sono naturali, mimetiche. Invisibili.

mercoledì 17 dicembre 2008

cinemuna: "operazione san gennaro"


Discover Ennio Morricone!

Quando il sangue di San Gennaro non si scioglie chi è che deve temere? Così, col funesto presagio del mancato miracolo, in una cripta in epoca imprecisata ma certo passata, si apre il film. La tradizione ha sempre voluto che a tremare fosse il popolino di Napoli, coloro ai quali sempre l’ano fu usurato. E invece no: man mano che la trama si sviluppa si comprende che il nuovo interlocutore del santo patrono è la classe dirigente napoletana. A voler dire che pure il santo ha bisogno dei suoi santi in paradiso: e quell’è santo, mica fesso?! Così a nulla vale il tentativo di frullare il sangue, né la granita all’amarena che un paio di assessori sono costretti a trangugiare per poi sputare – si sperava – sciolta. La sciagura piomba, solida come un tronco, nelle chiappe di personaggini allegri e disinvolti interpretati da grandi attori tutti passati per la gavetta: c’è il bel Giuseppe Gambale, cardiologo esperto di sangue e pompaggi, già ammirato in “Vacanza in commissione antimafia” e “Educazione, trasparenza, legalità… tutto bene ciò che riempie la bocca” (due vivaci commedie nere); c’è l’abile Enrico Cardillo che si era messo in luce con “Metalmeccanici polli miei”, docu-fiction sulla attitudine alla scalata di certi sindacalisti; c’è il compianto Giorgio Nugnes alla sua ultima apparizione sullo schermo; ci sono in più molti altri comprimari che col tempo impareremo ad apprezzare. Nello sconforto per non aver potuto apprezzare le performances di Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino, dai quali ci aspettavamo molto ma molto di più, segnaliamo la recitazione, al solito sopra le righe, di un maturo ma ancora indomito Cirino Pomicino, e le partecipazioni di Italo Bocchino e Renzo Lusetti – quest’ultimo, insieme con il cameo di Salvatore Margiotta (tutt’ora impegnato nelle riprese del “Potenza è controllo” di Henry John Woodcock) – rappresentano motivo d’orgoglio per il produttore Walter Veltroni, colui, cioè, che ci mette la faccia.
Un film spettacolare e crudele, avvincente e soffice, ma anche duro, sanguinario (come non avrebbe potuto?). Uno spaccato storico e culturale da non perdere, ché in ogni caso s’è già perso.


cinemuna: "ultimatum alla terra"

Quando lo schermo è interamente occupato da un water incrostato di merda in un fast food di Toronto non c’è nulla che lasci presagire ciò che di lì a poco sta per accadere. Ma poi ecco che dal piscio ti spunta l’alieno. Il problema, che poi per la tenuta del film è il vero toccasana, è che l’alieno viene immediatamente riconosciuto come non – o poco, o scarsamente, o piuttosto malamente – umano. Questo permette al regista – l’anglobritannico Bobby Charlton, già autore della brillante farsa “Non fare come me: reimpiantati i capelli” – di alleviare la tensione propria del genere organizzando un andazzo simile a quello di una commedia degli equivoci nella quale l’alieno crede di essere un uomo mentre tutti gli uomini sanno che così non è. L’hanno già capito, punto e basta. Interessante la spiegazione che fornisce un giovane, e irriconoscibile, Topo Gigio, anch’esso alieno: “(…) il tuo programmatore ti ha inserito un software non aggiornato di estetica umanoide: tu sei esattamente delle dimensioni che erano proprie degli uomini dell’antica Roma; in altre parole sei un nano, e sono cacchi tuoi. Mo me ne vado, brutto figlio di puttana!”. Insomma, risate a crepapelle - anche grazie ad una graffiante colonna sonora (I want it all, The Queen). Finché però l’alieno non si mette in testa, con somma sorpresa di tutti, di poter distruggere il mondo a botta di scuregge inquinanti. La maggiorparte degli spettatori ritiene che l’alieno si sia messo questa assurdità in testa nell’impossibilità di combattere in altro modo un'odiosa calvizie. Alcuni critici, tra i quali l’illustre Ermigno Lodegli Inculati, interpretano questa violenta virata verso un ben noto filone eco-global-tragic che fa da contrappunto al bon vecio Al Gore spiegandola come l’ovvia esecuzione di un software inappropriato al tempo d’oggi. Ma altri clitici, fra cui me Muna, sottolineano l’inappropriatezza generica di tutto l’accadimento che trova conferma in quel finale ermetico che però chiude perfettamente un cerchio decadente: il cesso, da cui l’alieno era uscito, torna ad accoglierlo con la stessa capacità di prima, e se possibile con maggior fetore. Un lieto fine cioè, forse l’unico auspicabile.

lunedì 15 dicembre 2008

cinemuna: joseph ratzinger in "come dio comanda"


Scrivi anche tu con Metil!

Il vecchio dilemma sul reale potere di Cesare, burbero nobilotto locale dalle finanze mal ridotte, in una provincia eccitata dalla propaganda reazionaria di Risto, un giovane e barbuto comunistello rom. Questo lo scenario in cui agisce Giuseppe – soprannominato dagli amici “ben detto” perché ha quasi sempre ragione, e quando non la ha sa a chi far parlare in sua vece per appropriarsene. Ben detto ha un cruccio: egli sa di poter ergersi a rappresentante di una nuova moralità ma i suoi compaesani sembrano ostinati a non voler riconoscere le sue doti da illuminato. Proprio a questo punto il regista – un testardo e visionario Salvatore Adognicosto, già autore di “L’ultimo comandamento è: penso io per te” e di “Lazzaro, prima cammini come si deve e poi forse ti alzi” –, sondando la realtà metropolitana più underground, inserisce potenti interrogativi su quale sia il senso della vita: se la vista, l’olfatto, il tatto o il gatto. Ebbene, il film di risposte ce ne fornisce, ma senza eccessiva convinzione, così da farci dubitare sulla scelta del protagonista ben detto di optare per la Via Violenta, quella perpendicolare alla Via di Damasco, di fianco alla stazione centrale. Lì, in un tono epico di rara ampiezza, ma con un realismo esasperato e crudo, avviene il duello finale tra ben detto e il giovane predicatore rom al quale tuttavia Giuseppe s’era ispirato. In gioco c’è il ruolo di contendente di Cesare, e come in ogni lotta intestina la storia vuole che a prevalere sia la fazione estremista.

procuratori mattacchioni

qui c'è un'altra vignetta

domenica 14 dicembre 2008

d'alema annega veltroni: nessuna verità

In questo giorno gaio in cui la squadra del boss d'Italia dimostra di non sapersela cavare coi propri mezzi, senza il rigorino generoso, e somiglia sempre più al peggior Real Madrid incapace di cambiare ritmo come una fiat 127 con un bananone infilato sù per la marmitta... in questo giorno in cui se potessi chiederei a Ronaldinho come mai non samba più, ma evidentemente non posso perchè i suoi compagni sono stati schiaffeggiati sonoramente da pulzelli imberbi e cazzuti... in questo giorno in cui la mia parte argentina o zingara se ne fotte di come il buon tono medio la tacci di cafoneria scelgo di parlare d'altro.
Su Libmagazine scrivo dell'ultimo di Ridley Scott: Nessuna Verità

venerdì 12 dicembre 2008

lunedì 8 dicembre 2008

sabato 6 dicembre 2008

venerdì 5 dicembre 2008

Senza uguaglianza la democrazia è un regime

(...) se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell' uguaglianza. In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell' uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge "ferrea". E' la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l' uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell' azione politica. La costituzione - questa costituzione che assume l' uguaglianza come suo principio essenziale - è in bilico proprio su questo punto. Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo "clandestini", quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c' è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d' interesse, per i quali, anche, non c' è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d' ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino. Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall' intervento privato, dove chi più ha, più può. Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato. Analogamente, anche l' organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L' oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza. Così come è una conseguenza l' allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall' alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso. (...)

Di Gustavo Zagrebelsky, su Repubblica, via Malvino

giovedì 4 dicembre 2008

Bassolino e Iervolino nel nuovo film di Veltroni


silenzio, parla pinocchio


Una zolla di conosciumi è. Reticoli che a ogni giunco rilasciano un grammo di schiuma. Quella sostanza appiccica ma, se ben trattata dall'alchimista degno, può trasformarsi in grano. Il consumismo non è un'aberrazione. Quanto non lo è quella vecchia forza all'erezione, cioè alla comodità. Tutto può essere manico o lama a seconda dell'ambizione del soggetto alla comodità. Però ora zitti. Facciamo parlare colui che dalla pancia in fondo al mare deve a forza conoscere dinamiche innovative e disconoscere i motivi per cui in superficie si vendono le favole.

mercoledì 3 dicembre 2008

Enola Gay, back to hell

Cioè pelli squagliate, botti e controraffiche. Riapro il blog perché oggi la mia testa dice così. Si’ facendo dico di sì. Il tempo arretra: s’inceppa la faretra, l’acqua passa e i ponti son cappelli. Gli amici, i nemici, i mammut e i fratelli. Il presidente nero paraponziponzipò, il presidente scemo paraponziberluscò. L’ambrogino, il cribbio-cioccolatino, l’autista della Rolls, le piene delle balls (oo→OO).
Pensa che, tanta era la distanza, mi si sfece la creanza quando all’alba, in una stanza, giunse il tale della ansa, per dicérmi in lontananza :“Guarda, Muna, te lo accenno, te lo accenno poco poco e non ti pigli tracotanza, ma pare, pare proprio così pare, che a Pompay dopo il vulcano è arrivato ‘o mussulmano!”.

Tremino! Tremino loro e tutto l’apparato:
il monaco lascia l’eremo…
…‘o muonaco è turnato!