lunedì 30 giugno 2008

¡Què viva Espaňa!

da LibMagazine


Premessa
Questa finale rappresenta una novità negli ultimi anni. Una domanda inedita circa gli orientamenti sportivi, poiché contrappone storia a prospettiva. La prima è il calcio tedesco, la seconda è la bella Spagna. Nei mondiali nippocoreani del 2002 l’indole da capitalismo aggressivo dell’estremo oriente aveva reso possibile la costruzione di un’aurea di commerciabilità attorno al fatto sportivo, e la finale arbitrata da Collina sembrò l’unica partita vera, anche perché il più era fatto (la Corea era già in semifinale, e la finale vedeva contrapposti i colossi degli sponsor tecnici Adidas per la Germania e Nike per il Brasile, con una bella pace da blocchi in guerra fredda). Agli europei del 2004 la questione era stata fra i ballerini di casa portoghesi e i muratori greci (muratori non per professione ma per attitudine in campo), e la risoluzione in favore della Grecia difensivista aveva dato nuovo respiro ai teologi della difesa – si tratta di teologia poiché il gioco difensivo è con evidenza una torsione della verità calcistica: paralizzarsi, non segnare per non subire reti, ovvero l’uomo non faccia i propri passi ma aspetti l’indice divino, o il calcio d’angolo a favore. A Berlino nel 2006 la finale fra Italia e Francia significava il confronto tra due squadre che dell’agonismo facevano virtù, la prima ne aveva in maggior quantità e organizzazione, ma la seconda lo poneva al servizio del genio (leggasi Zinedine Zidane) finendo tragicamente per dipenderne. In ogni caso, contrapposizioni antiche.

La domanda
La novità di questo campionato europeo non è allora la Germania finalista. I tedeschi praticano da sempre il loro gioco muscolare: la loro trama è quella delle fondamenta stabili che culminano in guglie variegate, ove alte e sfondanti, ove esili e penetranti; la loro forza è nella propensione a travolgere dopo aver respinto l’assalto nemico, un po’ come l’Italia e la Francia di sopra. Tanto che in queste formazioni è spesso il terzino l’uomo che scardina la difesa avversaria perché il centrocampo è forgiato alla lotta, ai cuori grossi e ai piedi non eccelsi. La nuova domanda invece la pone la Spagna, e recita: si può vincere senza difendersi?Prima di organizzare una risposta si badi alle implicazioni di tale domanda: vincere senza difendersi significa annientare l’avversario. Mettersi in condizione di non difendersi significa mettere l’avversario in condizione di non offendere. Per fare questo occorre “nascondergli la palla”, avere un continuo e pieno controllo del gioco, disporre d’ardimento e sapienza sufficienti a modulare i propri movimenti su più ritmi, in considerazione della resistenza fisica e dell’impossibilità di rifiatare senza possesso palla. Nascondere la palla significa mostrarla mentre la si rende impalpabile, edificarle attorno architetture labirintiche. Occorre aver studiato dai brasiliani, senz’altro, ma muovendosi da premesse europee più realistiche: cioè il calcio resti calcio, e non ballo. La formazione spagnola è in Europa l’applicazione integralista di questo pensiero. Il suo centrocampo, che altrove è abbassato a funzione di filtro (eccezion fatta per i Pirlo e i Ribery), non ha randellatori né scassinatori, ma abili e delicatissimi fiorettisti. Basti pensare che l’uomo più arretrato è un brasiliano naturalizzato, tal Marcos Senna, che svolge in campo i compiti che sono anche del nostro santificato Pirlo: passo preciso, visione di gioco, individuazione dello spazio da percorrere, monitoraggio del ritmo. Davanti a lui non c’è gente che ringhia. Ci sono Iniesta, Silva, Fabregas, Xavi, ragazzi che sanno come toccare la palla, che sanno come leggere i movimenti dei compagni in chiave offensiva, che sanno quali spazi andare ad attaccare. In breve, il centrocampo spagnolo si limita a giocare a calcio, e non è poco. La fase difensiva esegue una visione ingenua, fanciullesca, del calcio: difendono solo i difensori, e qualche volta (vedi Sergio Ramos) attaccano pure loro. Siamo però fermi all’interrogazione “si può vincere senza difendersi?”, dunque mandiamoli in campo e vediamo.

Germania-Spagna
I primi dieci minuti rispondono di no. La Germania fa valere una certa pratica con l’evento finale, la sua storica arroganza, mentre gli spagnoli appaiono asfittici e incerti. Sembra che non si possa vincere senza difendersi, perché occorre una concentrazione e una consapevolezza audace che a frangenti può mancare – d’altronde ciò che ordina al piede buono è sempre il cervello, la cui buona salute è soggetta a variabili incontrollate. Poco dopo però la Spagna si assesta. Inizia, masso dopo masso, e passo a passo, l’edificazione del labirinto. Senna, destinatario privilegiato della prima palla, è marcato stretto, allora sale a raccoglierla Xavi sempre più spesso, pescando gli uomini e gli spazi del regista. Poi, fatto largo, la rende a Senna e si propone fra le linee tedesche. In una di queste situazioni è pronto a riceverla alla tre quarti proprio da Senna. Il tempo di voltarsi verso il puntero Torres, già glie la dà, dritta e radente oltre il centrale e sottovento rispetto al terzino Lahm. Lahm ha grande tecnica, grande agilità, ma Fernando Torres quanto a progressione, potenza e facilità di corsa può sotterrarlo. Lo sotterra. Lehman è scavalcato. Uno a zero per le furie rosse, si alzano i regnanti, esultano, si ricompongono. I tedeschi reagiscono di stizza, palla alta e sotto a sportellate: Ballack si rompe l’arcata sopracciliare. Il primo tempo finisce con una prospettiva sporca di sangue: non solo si può vincere senza difendersi, ma è ancor più facile farlo se già si sta vincendo, perché in quel caso basta solo mantenere calma e possesso – l’un l’altro reciprocamente propedeutici. Inizia il secondo tempo che per una decina di minuti alla Germania pare semplice il gioco del calcio. In fondo basta che qualcuno, magari sulle ali, salti un uomo, che la metta in mezzo e qualcosa dovrà pur accadere se hai più centimetri d’altezza. Ma dura dieci minuti appunto. Poi gli spagnoli si riappropriano della palla: labirinti e labirinti. L’uscita c’è, si sa, altrimenti la definizione sarebbe disonesta e ingannevole, ma l’arte sta nell’illusione prospettica: la palla c’è, poi sparisce, poi riappare, poi s’avvicina alla porta tedesca, quasi gol. Più passano i minuti più i bianchi sono stravolti perché i loro attacchi s’arenano sui piedini agili degli spagnoli, i quali a loro volta ripartono, e non segnano il secondo solo perché s’innamorano di se stessi. Finisce così, il secondo portiere al mondo, Casillas, alza la coppa – il primo portiere al mondo, Buffon, aveva smarrito la squadra.

La risposta
È arrivato quanto cercavamo: si può vincere senza difendersi, soprattutto se chi attacca sa vincere solo difendendosi (Germania oggi, Italia ieri). Ma, clamoroso, la Spagna dimostra che si può vincere divertendo: basta un pizzico di coraggio. ¡Què viva Espaňa!

la vignetta di libmagazine

venerdì 27 giugno 2008

intermittenze europee - le sventure del munaciello, striscia

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Da LibMagazine, al delinearsi della semifinale Germania-Turchia, s’era detto che i turchi si sarebbero fatti segnare un gol al penultimo minuto per poi farne due all’ultimo. Lungi dallo sparo a salve, la convinzione era dettata dalla naturale incapacità dei turchi di porgere il collo. Difatti questi scendono in campo più rognosi del solito pur se rimaneggiati nella formazione: si allargano sul rettangolo come fosse una pozza e loro bolle di grasso, mordono l’erba e le caviglie tedesche. Gli avversari invece appaiono subito di quella bislacca tempra che oscilla tra l’impalato e il nostalgico: ripensano ai fasti, i tedeschi, e allo spazio verde che sotto alle mandibole turche sparisce sempre più. Però che gradevole frescura questi ventidue che se le danno senza guanti. Chi più chi meno. Più i rossi meno i bianchi. Traversa. Poi di poco a lato. Soffre la Germania. Sempre la stessa storia ‘sti tedeschi: se non sono loro ad attaccare li piglia il torpore. Ma d’improvviso, una pausa politica: in telecronaca si dice che trattasi di derby – ecumenismo spicciolo. La Germania è piena di emigranti turchi, e di conseguenza la Turchia è piena di turchi che hanno parenti in Germania. Ragioni climatiche e di sostentamento impongono una svolta europeista alla lettura sportiva, figurarsi che in argomento non mancano i citrulli che proprio sotto quell’inglesismo derby amano darsele. Tac, nel mezzo della divagazione segna la Turchia. Mezza Europa esulta. Tempo due minuti, un calciatore che deve aver rubato il cognome ad una doppio malto bavarese pareggia. Schweinsteiger. Giusto una sbronza occorrerebbe alla corretta pronuncia. Si va all’intervallo. I due tecnici sono visibilmente extraterrestri l’uno all’altro. Loew, un monolitico monosillabo, stessi calzoni e camicia da un paio d’anni, ha pochi segreti sotto la bassa e nera frangia, suggerisce di allargare il gioco, di sfruttare i terzini, di sfruttare i polacchi naturalizzati, i tiri di Ballack – come appunto da un paio d’anni. Terim lo chiamano l’imperatore, è caldo e pazzo, è caldo e sudato, è il tipo che ti piglia per il bavero e ti manda in campo, figurarsi per dove ti piglia se dal campo deve cacciarti. Si torna in campo (tutti interi) e dopo dieci minuti succede il fattaccio. Se la Vukotic moglie di Fantozzi avesse avuto voce in capitolo sarebbe stato di certo suo il copyright della vicenda: lo schermo, cataclisma e scherno, si oscura. Il calciofilo d’istinto passa a raidue, “il solito salto del segnale” suggerisce a se stesso. Mannò, funziona finanche raitre. E poi il bollino “raiuno” è ancora lì, sol soletto in alto a destra. È il buio, è la notte, è il vuoto, il giorno del giudizio. Un giudizio femminista. La canna del gas è poco distante, e comunque c’è il forno. Il calciofilo medita sulla morte: sarà un po’ come un rigore sulla traversa, ma senza tonfo, si dice, come Di Biagio nel '98 ma col sonoro di Baggio nel '94. Poi, lato macabro del miracolo, raiuno si apre sul salottino dei bradipi: Mazzola, Longhi e Bartoletti chiamati all’ordine dall’emergenza danno sfoggia della loro capacità di reazione. Non c’è storia, pensa il calciofilo, mamma rai è sempre ‘a mamm’. Il collegamento si riallaccia, la vita si schiude come un girasole, e il sole… e il sole… si stacca di nuovo il collegamento. Nel buio ci avvertono che ha segnato un polacco. Polacco? il calciofilo pensa ad un attentato, ma noi sappiamo che i polacchi giocano per la Germania. Però al buio. Il primo angolo verde che torniamo a vedere dopo interminabili minuti è ripreso dalle gradinate della curva tedesca, dall’alto, schiacciato, buffo e amatoriale, con commento radio. Non si vede la palla che gira, ma la si intuisce dai movimenti di macchioline rosse o bianche che segnano fughe sul televisore. E s’intuisce che la palla s’avvicina al vertice basso dell’inquadratura, che poi sarebbe la porta tedesca. Al commento radio si sovrappone la cronaca, probabilmente telefonica, di Cerqueti e Collovati, voci che arrivano un istante prima dell’immagine e che ci anticipano ciò che l’intuizione avrebbe faticato a esporre: quelle macchioline ammassate in basso significano il gol del due a due turco. Mezza Europa esulta di nuovo. Mezza Europa, se legge LibMagazine, preconizza il terzo gol, quello dell’ultimo minuto. Ed arriva il gol, ma è tedesco. Lo segna Lahm, il terzino sinistro di piede destro, come a dire “avanti che indietreggiamo!”. Mezza Europa si accascia sul divano, l’altra mezza, compresa la precedente, si accascia per una nuova interruzione del segnale. L’Europa degli Europei, degli europei e degli europeisti, è in ginocchio al buio. Forse Al Quaeda. Forse Blatter, per imbrogliare meglio nell’oscurità. Anzi no, sapete cosa dico? forse Marcello Lippi!

giovedì 26 giugno 2008

un cinema che liberi


L’evoluzione della percezione umana, sindacabile attraverso l’evoluzione del gusto delle masse, è naturalmente educata dalle forme d’arti popolari tramite una ricezione dell’opera che, essendo il destinatario la massa, ed essendo l’opera un’opera progettata per la massa, ed essendo il mezzo della rappresentazione un mezzo unidirezionale (che non offre al destinatario spazio di manovra, né di pausa riflessiva) non può che avvenire in maniera distratta. Pur nella distrazione – o esattamente in virtù della distrazione – il destinatario si abitua a nuovi canoni con estrema velocità e agevolezza. Esempio lampante è l’educazione al linguaggio sintetico, allo slogan, alla rapidità di movimento delle immagini, che sono propri del prodotto per eccellenza destinato alla massa: la pubblicità. Da lì infatti giungono i toni lampeggianti e shockanti dei notiziari televisivi, da lì i titoli seducenti e i montaggi degli approfondimenti in seconda serata, da lì, addirittura, i tempi comici e i tormentoni del cabaret. Con una conseguente, e in taluni casi stonata, omologazione e somiglianza fra i suddetti generi che pure nascono ovviamente assai difformi. Non si esime da tale fascino d’omologazione il cinema, che d’altronde con la sua nascita segna il primo spostamento di baricentro dell’esposizione artistica verso la massa più che verso il singolo o un poco nutrito pubblico – come invece la pittura.
Nei suoi prodotti più popular – che per intuibili ragioni finiscono per essere commercialmente i più redditizi, anche a seguito di monopolizzazione del mercato – il cinema si dimezza in opere ad un unico livello che si fondano sul ritmo sostenuto, sulla preponderanza dell’azione, su un evidente e inequivocabile messaggio di buona morale, sui colori sgargianti. Più di tutto, su un unico livello. Vale a dire che il rappresentato non ammette sfoghi narrativi paralleli, né apre canali espressivi differenti da quello principale. Esiste una sola linea (è o no l’era degli assolutismi?), una sola verità, o piuttosto un solo modo di cercare e rappresentare la verità, ed ogni indagine che sia tangente a quella linea rischia di apparire fuorviante, deviante e deviata.Fra le rade deroghe ammesse a questo poco nobile realismo – che reale realismo non è, giacché la realtà, lungi dall’essere una linea, è un piano costituito da molteplici e multicolori linee – v’è lo smontamento e rimontamento alterato della sequenza temporale, essendo il tempo l’ultima divinità, quasi ossessionante, che la civiltà che comanda in ambito artistico e non solo (evidentemente quella occidentale) subisce e coltiva con sensibilissima devozione. Il percorso che conduce a tale ammissibilità passa tuttavia per frange di opere che, pur sacrificando la loro piena portata semantica, eseguono una sorta di affinazione delle barriere logiche del pubblico stimolandone la crescita proprio, e paradossalmente, per vie che contraddicono parzialmente e momentaneamente la distrazione con cui si recepisce il prodotto cinematografico. I migliori film di David Lynch, “Mulholland Drive”, “Lost highways” e, con un discorso ancor più estremistico, “Inland empire”, escono sconfitti dal confronto col grande pubblico poiché lo rendono retrivo. Tuttavia pongono indubbiamente le basi affinché altri prodotti, mediati da una minore violenza espressiva, riescano ad incrociarsi col pubblico: film come “Elephant” di Van Sant, dove la sequenza temporale è sottoposta agli incontri fra i personaggi, quasi a voler racchiudere nella (in)comunicabilità il mistero del film e della vicenda di cronaca cui questo si ispira; o ancora il recente “Before the Devil Knows You’re Dead” di Sidney Lumet, dove l’alterazione temporale è simbiotica ai punti di vista dei personaggi, con l’effetto di acuire la claustrofobica solitudine della quale si nutre la tragedia; o ancora la trilogia sul dolore ad opera del regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu (“Amoresperros”, “21 grammi” e “Babel”) dove la frantumazione del tempo sembra rispondere alle domande sul senso della sofferenza con altre domande.
È attraverso tali esempi che il cinema può ergersi a baluardo contro l’ottundimento cui la massa è esposta a causa del vortice di autodistruggenti messaggi pubblicitari; è attraverso questi apparenti gesti di presunzione, questa tensione all’elitarismo, che il buon cinema deve pungolare il pubblico stimolandone la crescita, la capacità critica, e la volontà – ma la necessità! – di riflessione. A patto però che questo o altri simili approcci non si istituzionalizzino nella forma-canone, altrimenti si correrebbe il rischio di incappare in un notiziario scomposto e rimontato – cosa che, in quest’epoca in cui informazione e politica sono pericolosamente limitrofe, sarebbe d’un chilo più tragica dei 21 grammi che pesa l’anima.

Ciro Monacella

martedì 24 giugno 2008

memento audere semper, ma soprattutto memento, me mento

Che niente di ciò che è umano debba essere estraneo all'uomo, s'è già detto. Che ciò che è umano debba, esattamente in virtù d'umanità, essere sfrondato dai cagli e dai lacci del precostituito, si prova a dirlo. Due ultime parole, allora, il caso le merita. Non in quanto caso di chissà quale spessore, ma in quanto esempio di fenomeno umano che è soggetto, da parte del soggetto più umano della media, ad una esauriente e feconda possibilità di previsione.
LibMagazine mi offriva la possibilità, in data 8 giugno (Giu 8th 2008, recita il testo), di ragionare su una cazzuta novità in ambito calcistico: l'Italia allenata da Donadoni si apprestava a cominciare l'Europeo con tre punte tre. Le convocazioni stesse del cittì andavano in quella direzione, ovvero: se devi giocare con tre punte e tre centrocampisti non hai altra scelta che convocare meno centrocampisti e più attaccanti rispetto al consueto alveare di mediani con cui si parte dall'Italia per le grandi competizioni.
Da parte mia c'era un certo ottimismo, non nascondo, un frizzore, un odore di cattiveria e menefreghismo avvertibile nel respiro della nostra squadra, e in Donadoni, memento audere semper! scrivevo: "Da osservatori esterni a queste ipotetiche diatribe, noi di Libmagazine ci ergiamo a sintetici sostanzialmente eclettici, e non poco pragmatici, ritenendo che l’Italia vincerà gli Europei, e questa volta divertirà esteticamente, solo in caso di ostinazione del suo tecnico nella vocazione offensiva. Ma che li perderà tristemente se alla prima bastonata – e visto il girone con Romania, Olanda e ancora Francia non sarà difficile recuperare legname – retrocederà."
Sai tu cosa è accaduto? Che la bastonata è stata dura, forse chiodata, triplamente chiodata, e arancione. E che da quell’esatto istante Donadoni ha ricriticato, in cieca confutazione, tutte le sue premesse, la sua tesi sfaccimmosa delle tre punte in campo e cacchi altrui. S’è appellato al Del Piero mezza punta. Poi al Cassano con stigmate. Comunque sempre 4-4-2 solido e stantio. E addirittura nell’ultima gara, quella lesiva del senso del pudore d’ogni amor ludico, anziché profittare delle squalifiche di due indispensabili centrocampisti quali Pirlo e Gattuso per riproporre le ali alte con centravanti (tre punte tre), ha organizzato una linea mediana di scarpai e cartigienicisti. Nessuno si lamenti della merda, io avevo avvisato.

l'Italia fuori dai coglioni - ecco le eliminazioni dirette

Già è poco probabile vincere quattro partite di fila. Basti pensare che quattro partite di fila corrispondono, nei mondiali, a ottavi di finale, quarti, semifinale e finale. Insomma solo una squadra su trentadue ci riesce. Per contro, la squadra che addirittura vince le tre partite sbagliate, cioè quelle dei gironi, si pone nella scomoda condizione di verginità agonistica per la quale faticherà a penetrare la dimensione vita/morte propria dell’eliminazione diretta. Questa squadra, poco poco le capita di vincere l’esordio (il verbo debitore del caso non sottrae abilità, ma cerca la vera dinamica dello sport), gioca sul velluto la seconda partita. Il qual velluto le facilita le cose perché i piedi più sereni sono anche più precisi di quelli impauriti. La terza partita del girone, quando la squadra in questione ne avrà già vinte due, sarà giocata con le riserve e una nuova voglia giovane. Probabilmente sarà vinta. A quel punto nel primo turno ad eliminazione diretta si beccherà una squadra che ha fatto seconda nel suo gruppo, e che per ovvie ragioni ha dovuto, nell’ordine variabile, impattare con un pareggio o una sconfitta (e allora saprà meglio che le cose possono anche andare storte), e lottare coltello ai molari per passare il turno (allora conoscerà di se stessa i limiti, conoscerà quel dato momento epico in cui rabbia e paura organizzate plasmano ciò che si chiama reazione). Ma ci stiamo invischiando nell’idea, da lì il tono veridico, mentre basta una banale cacarella a cancellare quanto fin qui battuto. Dunque andiamo con ordine fin dentro i singoli casi, lasciando per ultimo la confutazione pratica alla teoria ora esposta.
Il Portogallo, gallina dalle uova d’oro quanto a puro talento, s’accorge di aver fatto la frittata con la Germania solo negli ultimi venti minuti della partita. Si scompone, impallidisce. Ronaldo d’improvviso si vede brutto, vagamente cafone e un po’ ridicolo. Il Portogallo spaesato si forza ad un gioco d’assedio che oltre ad essergli innaturale è del tutto sterile contro i due metri cadauno dei tedeschi. La Germania invece fa quello che ha sempre fatto: mai stata prodigio di tecnica, mediocre e barbara si compatta in un collettivo muscolare che opera di prepotenza. Sa perdere, sa recuperare, quindi sa vincere. Il Portogallo invece sa solo vincere, e se inizia a perdere gli sembra che Ercole abbia mollato i cieli proprio sul suo capo: dal fuggi-fuggi ne esce sconfitto.
Per Croazia-Turchia analogo discorso. I turchi ribaltano il risultato agli ultimi istanti già con la Svizzera e con la Repubblica Ceca. Figurarsi che capacità deflagrante avrà l’ultimo ribaltamento che coglie una Croazia talentuosa, organizzata, ma fiaccata dalle tre vittorie di fila, anche prestigiose, rimediate nel suo girone. Una distruzione talmente profonda da sradicare le meglio abilità dei Croati: finiscono per perdere ai rigori, proprio loro, di calcio facile e tecnica finissima, contro i turchi roditori di gioco e di caviglie come ogni balcano meridionale (leggasi Grecia a Euro 2002). La Turchia andrà ad affrontare la Germania in semifinale con l’intento di subire un gol al penultimo minuto e di farne due all’ultimo. Ce la farà. A meno che non stia già sotto di tre a fine primo tempo.
L’Olanda poi, sempre e comunque bella, trova del traditore Hiddink lo sgambetto beffardo. È olandese il coach russo, insegna un calcio veloce in attacco e solido in difesa che solo alla Spagna dell’esordio era capitato di frantumare – e del quale il Trapattoni eliminato in Corea avrebbe saputo parlarvi se non fosse stato concentrato sull’acqua santa. La Russia fa l’Olanda, con un alito di vodka nei giovani dribblomani, con un odore di ghiaccio nei difensori impettiti. L’Olanda fa l’Italia che ha giocato contro l’Olanda: ci prova. Ma quelli corrono tanto, sembrano coreani piccoli e rossi. L’Olanda ci prova ancora, prova a reggere, a ripartire, a segnare. Segna pure, ma una combinazione fegato-zigomo la mette knock out nei tempi supplementari. Non le riesce la quarta vittoria di fila perché s’è ammorbidita, perché s’è creduta bella, e il discorso vita/morte dell’eliminazione diretta non interessa ai belli.
L’Italia infine, si dirà della sua uscita a testa alta come se a perdere ai rigori non si perda. Ha per tutta la partita con la Spagna una fifa pazzesca, piange su Cannavaro, rimugina su Pirlo, non attacca ma si limita a punzecchiare senza cognizione: palla avanti e Dio si mostri. Finisce per affidarsi alla prospettiva rigori con l’animo con cui fece col Brasile a USA ’94, perdendo appunto, e con una testa a forza bassissima per la riluttanza all’azione; e Donadoni, che è brava persona, finisce fidandosi degli uomini: ma Toni è incantato, Di Natale è sfiduciato, Cassano è isolato. La Spagna almeno, che da sola smentisce il primo capoverso lassù, si sforza di premere, di studiare e di inventare spazi. Di giocare insomma, che visti gli azzurri è già tanto. Non sono chissà cosa le furie rosse, ampiamente tramortibili con un minimo di cattiveria, ma hanno volontà e raccolgono il giusto premio. Che ora, per bella carità, e per un alone di giustizia agonistica, vadano a spalmare Russia e Germania.

Ciro Monacella

Su LibMagazine poi, siamo lapidari riguardo agli esami di maturità:

giovedì 19 giugno 2008

Italia-Francia dimostra dove è la stupidità del calcio

Da LibMagazine

Siamo alla conferenza stampa che precede Italia-Francia. A domanda sulla sua probabile ultima panchina come coach francese, Raimond Domenech si rivolge al giornalista. Che non sa se quella sarà la sua ultima partita da cittì, ma che quella è l’ultima domanda della giornata, così dice, col suo muso da lupo. Senza dubbio antipatico. Eppure non si può non gradire questo tipo di comunicazione. Tanto più che la sua prima dichiarazione dopo le scoppole ricevute dagli azzurri non è sulla punta retroversa del piede di Henry, né sulla kamikazzata di Ribery, né sulla velocità che il suo monastero di sabbia e orgoglio impiega a collassare. No, lui dice che il suo progetto è chiedere alla moglie di sposarlo, come travolto, il lupo, più che dalla sostanza testicolare dei calciatori azzurri, dalla falda rosa che abbevera l’eliseo. Ammessa dunque l’umanità – non da melenso rotocalco ma da comunicazione surrealista – di Domenech, bisogna riconoscere che la lezione impartitagli da Donadoni non è di serietà, ma di tecnica. E parliamo della prima tecnica del cittì: la capacità poco surreale e ancor meno onirica di selezionare i calciatori migliori in quel dato momento, indipendentemente da auree pubblicitarie o storiche. L’errore del temporaneo affidatario degli orfani di Zidane è allora a monte, e risale a convocazioni strampalate scaturite da capricci personali o zodiacali. L’allenatore ad esempio non convoca i nati sotto lo scorpione, e ad occhio e croce anche l’autista del pullman francese, visto il quadruplo tamponamento causato all’arrivo allo stadio, dovrebbe essere frutto di calcoli astrali. Ma ancor più gravi le assenze di Mexes in difesa, di Trezeguet in attacco, di Frey in porta, e per di più la fiducia riposta in bufalotti neri quali Anelka e Govou, che contrapposte alle convocazioni quasi demagogiche di Donadoni (giustamente demagogiche in virtù di quel certo detto antico), hanno determinato la mollezza francese. Gli italiani invece hanno iniziato l’europeo quando hanno subito il gol della Romania, alla prima salita, come altrettanto antica usanza impone, e come la diga alpina forse ha educato. Sembra dunque raggiunto quel cantuccio di crosta terrestre da dove poi inizia la discesa. C’è solo da stabilire se questa durerà il tempo necessario per andarsi a giocare la finale. Buffon coi nervi così affilati da tagliare lo spazio, suggerisce di sì. Anche Cassano dice di sì, e lo fa quando in una partita giocata con lo scopo unico di far segnare Toni l’incantato si ritaglia solo due gesti personali, due tiri concettualmente sbagliati – ma si sa che il suo genio non è nel concetto. Gattuso e Pirlo, che mancheranno per squalifica nel quarto con la Spagna, e una difesa umorale, e il già accennato abisso d’incanto in cui è caduto Toni, dicono di no.
Passiamo la parola all’Olanda. Questa, eccola col tono del vecchio re, quello che giudica perché è il più forte con la spada, ha detto di sì. E lo ha urlato con due gol ai romeni proprio mentre mezza Italia denunciava l’immoralità altrui denotando una sorprendente sensibilità alle combine sportive, manco Van Basten avesse la voce palatale di Moggi. I commentatori più illustri annaspavano nello sforzo di ritenere nefasta per gli azzurri la scelta di Van Basten di schierare le riserve contro la Romania, ignorando o addirittura capovolgendo la camaleontica questione motivazionale: secondo loro le riserve, vogliose di guadagnarsi un posto da titolari, sarebbero state meno motivate dei titolari, che in realtà, guadagnatasi già la qualificazione, non avevano nulla per cui sudare. Tutto questo volendosi fidare del potere enorme del motivo, senza manco badare al fatto che una semplice vittoria in una competizione del genere porta in cassa alle federazioni alcuni milioni di motivi in foglietti di banca. Ecco allora dimostrato l’equivoco della stupidità del mondo del calcio. Essa non è mai in chi concretamente lo fa, quel mondo, ma in chi parlandone lo infetta della propria stupidità.


Ciro Monacella

Da LibMagazine - dove trovi anche una bella intervista a Eugenio Bennato

lunedì 16 giugno 2008

Europei, regolari irregolarità

Da LibMagazine

Considerando il calcio in senso assoluto, ovvero come esperienza che trova nelle righe di gesso del prato i suoi ben netti confini, non si può negare quanto fedele esso sia in una certa rappresentazione universale degli umani vizi e delle umane virtù. Dunque appare evidente che, proprio come in ogni arte o tecnica, la finezza dell’atto debba essere la sola discriminante del buon esito del gesto nella sua totalità. Questo per dire che “giocare bene a pallone”, in uno sport che prevede che tal pallone venga passato di piede in piede, è proprio più del collettivo ben omogeneo che del narciso votato all’eterogeneo. Tuttavia, e parliamo dell’Olanda, la prestanza definitiva del collettivo non può che fondarsi sulla concentrazione, sul dinamismo atletico, e sulla fine tecnica del singolo. A ciò non si dimentichi di aggiungere quella funesta e suprema verità – l’unica – il caso, di fronte al quale i più codardi tra i furbi trovarono opportuno inventare gli dei. Giustamente, e divinamente, allora l’Olanda schiaffeggia dopo l’Italia anche la Francia: giustamente perché Van Basten schiera un centrocampo tecnicamente ineffabile e al contempo arcigno in fase difensiva; divinamente perché il caso mette i giusti giri – i giusti, i compatibili giri – nel pallone e nei piedi arancioni, così tiri imprendibili, così soluzioni imprevedibili tutte a buon fine. Mentre in un altro campo l’Italia, pur pungolata dalla sua storica e affezionata acqua alla gola, pareggia giustamente perché Donadoni si ostina a inserire tardi l’unico lampo irregolare che ha, Cassano; e divinamente perché i regolari tiri dei suoi trovano le regolari risposte dei portieri avversari.
Ma il calcio non va considerato in senso assoluto. La sua natura di sport di massa lo forza a dotarsi di un vero e proprio sistema politico che tenga a freno le intemperanze umorali della massa attraverso organismi sopranazionali, e che permetta una vendita del prodotto alla stessa massa nel miglior modo possibile – alludiamo chiaramente a criteri di capitale. Un collegio evidentemente kafkiano ha deciso che le teste di serie degli europei fossero Austria e Svizzera in quanto paesi organizzatori, Grecia in quanto campione uscente, e Olanda in quanto dotata del miglior coefficiente-punti nelle due ultime serie di qualificazioni a mondiali ed europei. Non aver valutato la scarsezza delle nazionali austriache, greche e svizzere, né la tradizionale forza di nazionali come Germania, Portogallo, Spagna, Italia e Francia – le ultime addirittura finaliste nell’ultimo mondiale – ha contribuito a formare raggruppamenti mai così disparati. Si va dal ridicolo girone della Germania (con Austria, Croazia e Polonia) e dallo scialbo girone della Spagna (con Svezia, Grecia e Russia) al cosiddetto girone di ferro dell’Italia (con Francia, Olanda e Romania). Conseguenza di questi improvvidi errori di valutazione sarà la prematura eliminazione di discrete squadre di calcio in clamoroso controsenso rispetto alla finalità dello sport-spettacolo, che è quella di premiare i migliori perché i migliori fanno più audience.
Eppure, paradossalmente, e in una prospettiva d’osservazione piramidale, siamo ancora nel rettangolo verde. Il problema sorge quando ciò che non appartiene al calcio interviene a determinarne lo svolgimento. L’arbitro ha una funzione di trasparenza: egli non esiste, non rappresenta, non è sulla scena. L’arbitro è l’estensione trasparente del regolamento di gioco, in un certo modo la sua mano, ed ogni sua attività è tollerata per l’esclusivo suo compito di garantire il rispetto delle regole nel limite dell’umana possibilità di corretta o scorretta interpretazione, di corretta o scorretta visione di quanto accade. Una macchina insomma. Una telecamera che manda immagini al luogo in cui giacciono le norme – il cervello, ma la regia – in modo che lì si valuti l’aderenza o meno al regolamento. A quanto pare la telecamera saprebbe far lo stesso. Ma di più, la telecamera saprebbe garantire una quasi totale infallibilità nella valutazione, perché non esiste alcun paragone solido fra l’oggettività dell’uomo e quella dell’oggetto. La moviola è il passo offerto dalla tecnica verso la verità del gesto sportivo, tanto nel godimento per la bella giocata, quanto nella diagnosi giusta di un episodio guasto. Lungi dal basso positivismo, si potrebbe definire la tecnica uno strumento di liberazione da tutti i tipi di nebbie. In particolare la tecnica ad uso della massa, che si sa quanto vada ghiotta di nebbia. Ma c’è un particolare – che c’è sempre stato – : la liberazione presuppone uno stato di schiavitù, che a sua volta presuppone uno stato di padronanza altrui. Nell’errore umano, e nella buona fede dei misericordiosi, si annidano i meccanismi che rafforzano lo stato di padronanza. L’errore umano, o quello che tale si definisce, è la forbice d’ombra nella quale potenzialmente agisce, non visto, chi ha potere per agire.

martedì 10 giugno 2008

paused pause

Il neonato esercita un fascino primario. Uno di quei moti non ancora, o non più, soggetti al filtro degli stati emotivi ibridi. Un desiderio di puro atto contemplativo sganciato da ogni contingenza, come fosse esterno al mondo.
Indagato con l’elementarità che gli appartiene, questo bisogno si traduce nella prima curiosità dell’essere umano: capire l’altro. Il neonato è il massimo altro. È l’unico altro di fatto sconosciuto, perché, ancora liscio, ancora masso vergine, è libero da una serie di convenzioni comunicative che per espressione o impressione ne permettono una sommaria intuitiva identificazione. Contemplare il neonato cercando di capirlo significa interrogarsi sulle dinamiche esistenziali dell’altro, cioè dell’uomo, nell’esatto istante in cui la coscienza dell’esistere si forma.

Mi sono improvvisamente innamorato di una briciolina rosa. Ha la pelle liquida e la bocca di zucchero. Ha le mani mature, gli occhi sorpresi, i piedini freddi. È uno dei sensi del mondo, perché gli comunica da pari.

Zio Ciro
(ah, quanto a Donadoni, non dite che non ve l'avevo detto)