lunedì 27 aprile 2009

FRACESCHINI GARIBALDO


ALLARME: INFLUENZA SUINA!

Erano giorni complicati. Confusione ah! Proprio non possiamo sentircela di incolpare quelli che scelsero male. Quei poveretti che credevano all’impero italiano, a Ottaviano Augusto e all’ignoranza dei galli. Quegli ingenui, abbindolati dalla retorica dei furfanti. Quei deboli di spirito aggrappati alla mandibola del duce come passerotti al becco della mamma. E neppure quelli talmente deboli da sentirsi forti, addirittura violenti, quando inquadrati nelle squadracce, quando forniti di manganelli prima, di polvere da sparo dopo… Non possiamo, perché non capiamo, condannare quei ragazzi solo perché la storia gli ha dato torto. Né quelli che sono morti valgono meno di un buon pezzo di polvere; né finanche i collaborazionisti, i traditori, gli spioni, saranno estromessi dal regno di Silvio. Non possiamo avercela coi coglioni. Sono importanti, i coglioni. Fanno gravità, mantengono il legame con la terra.



giovedì 23 aprile 2009

GRAN TONINO

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mercoledì 22 aprile 2009

FASCISTI A MILANO

Quindi se tutto va – ma non va – come pare debba andare, in Longobardia non si potrà più banchettare sui marciapiedi dopo l’una. C’è da scandalizzarsi, certo, a vedere con quale leggerezza i provvedimenti del bel ventennio vengono camuffati nell’era multimediale. Ma tanto – dice Piccinini con voce d’orgasmo – “non va!”, perché in piena nudità l’obiettivo è rendere formalmente illegali i capannelli notturni di nigeriani et similia. Il ché significa che la legge avrà una funzione relativamente vincolante di minaccia: stiano tranquilli i giocatori di borsa che si danno un’arietta etnica col kebab in bocca, a meno che non siano neri. L’unico dubbio che mi coglie or ora, croccante come cipolla e altrettanto indigesto, è che tale provvedimento – se fatto rispettare – andrebbe a cogliere in fallo le piccole attività commerciali, giacché le grandi possono agevolmente allestire sale da pranzo in neutre e squallide catene. Cioè, proprio ora che ci incoraggiano ai consumi come tanti minuti Keynes, ci troviamo alle solite: i grandi s’abbracciano alla legge per far fuori i piccoli, i gelatai, i pizzettari, i kebabbari tunisini e siriani col loro personale indiano o slavo. Ah, da grande voglio essere Richard Mc Donald!


AUTARCHICA MERDA

Il battito d’ali di una farfalla newyorkese e l’uragano del piano Marshall hanno fatto la storia delle canzonette. Vada pure finché va, la barca, ripresentandoci la smania per il canto in ogni angolo del palinsesto. Inturgidiamoci l’ugola, irritiamola fino a che una goccia di sangue non ne sporchi la mutanda. Lasciala andare, che nel frattempo Bruno Vespa e un pool di esperti – direttori di giornali, docenti universali, opinionisti e altri vezzi postindustriali – sono impegnati a tracciare la mappatura della fantasia erotica di Alberto Stasi. Fortuna c’è quella chiavica di Chiambretti. Lì non si mente, tutto alla luce del neon sicché nessuno scambi merda per cioccolato. Mi batto il petto e rimpiango la cacca di Luttazzi.

“(...) Nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico. Le parole che cadono dal video cadono sempre dall'alto. Anche le più democratiche, anche le più vere, le più sincere.” P. Pasolini
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martedì 21 aprile 2009

JOSEPH RATZMADINEJAD

L'Italia ripudia il razzismo e la scurrilità - puttana la miseria!

domenica 19 aprile 2009

liberateci

A ben guardare. Proprio a vanga in braccio scavando tra i lombrichi e le lumache sguscie, il passato nella lingua degli Omero ha viuzze parallele. In una di quelle, perpedicola al quirin colle, dev'esserci pure un baldo giovine che arrotolava sigari in montagna scambiando edera per tabacco. Lì, sudicio d'olio per allestire fucili, scaldava la polenta sui fuochi fatti d'ante sfatte di Brianza. Sguardo serio come chi ha la meta poco sopra il naso. Occhio d'ombra del rapace in mimesi con la nube, sotto al sole, l'attimo prima che il becco alla preda rompa la pelle - alle prede le palle.

venerdì 17 aprile 2009

LA PARTITA LENTA - Paolo Sorrentino

Paolo Sorrentino, il più grande, l’unico. Il bianco e nero contrariamente a quanto consuetudine vanitosa richiede – come una gradazione da collezionisti nell’epoca del fluorescente – non fa il protagonista. È lindo. Naturale come fosse sempre stato lì, è una riduzione che perfeziona la varietà esaltandola – misurato contrasto. Il cinema narra immagini tramite cose, non cose tramite immagini. L’angolo e il fluire lento coltivano nella luce il prodotto effimero che non si palpa, ma palpa. E gli attori non parlano: come estratti da un humus schiumoso di vita muovono i corpi e con essi gli occhi restando fedeli alla carne che li dice animati. L’assenza del discorso è l’assenza della ragione. Gli urti, gli effetti del sudore e della terra sulle guance e nei capelli. E la musica che ruota come il pianeta e spinge docile come l’aria sulle onde. Un groviglio di muscoli in tensione simula nello sport l’ultima ombra di coscienza collettiva in una terra frantumata da sogni individuali. La partita lenta.

mercoledì 8 aprile 2009

fottere

Compatto insorge il mondo accademico, compatto, come la cacchina verde dei neonati. Ma verde. In qualche modo vergine. Vergine e verde. Una foglia d’alloro starnazza e rivendica certificazioni appese a chiodo 21 di fronte a un Cristo, fra la foto della moglie e una traccia di mestruo dell’amante. Immacolata e speranzosa l’accademia afferra principi e tradizione, con ingordigia da chocoaddicted. E si rompe le unghie a grattarsi le tempie. A chiedersi come cacchio possa un tecnico dall’accento paesanotto e dalla faccia pasoliniana osare. La scienza ha delle regole che hanno garantito il progresso degli ultimi due secoli. Il progresso è garante di quelle regole. Esistono i canali, per le idee. Lo smistamento. Quelle pesanti restano, ma quelle leggere vanno via galleggiando. I canali. Le cloache e gli stronzi.


martedì 7 aprile 2009

mangiare e fottere

Se percorri l’autostrada le passi di fianco, e lei è lì con l’aria d’esserci da sempre, L’Aquila. Come affaticata conserva una discrezione antica che solo le montagne centrali sanno preservare, e tu distratto passante di colpo avverti d’aver violato un pudore. Come spiassi dalla finestra una donna all’alba, stanca del corpo, adagiata in una corona di monti. Quando fuori dall’abitacolo è freddo e il vento affilato dagli Appennini ti macchia gli occhi di neve, quella donna si copre di lana bianca celando i fianchi, nascondendo ancor più il respiro. E mai nella sua alba, ugualmente, si accorge di te. Bruno Vespa è aquilano. Con voce comprensibilmente smagliata s’affaccia sulla prima serata di rai uno dall’elicottero che a bassa quota sorvola la città. Illustra l’arte che fugge dagli squarci delle cupole, i tetti piovuti in strada, le palazzine pur antisismiche aggrottate come latta. Sotto la sua voce, a tratti sopra, fruga nella piaga Henry Purcell con la musica per i funerali della regina Mary II Stuart, la regina della Gloriosa Rivoluzione. Per un istante c’è della solennità tanto nella reattività umida delle sue corde vocali, quanto, e soprattutto, nella gloria appannata del vecchio occhio del cronista: lontano dal salotto televisivo, dalle mogli illustri e dalla vischiosità del pettegolezzo, Vespa sembra acquisire il rigore morale dell’uomo della strada. Tanto più se la strada s’apre in baratri. Ma poi si torna in studio. Coi ministri e la telefonata del Presidente del Consiglio, il quale, dotato di sensazionale opportunismo, non perde occasione per improvvisare un mini-consiglio con Maroni e Matteoli. L’aquilano torna a succhiare potere. Il suo studio, il suo posto, torna ai ritmi spudorati della distribuzione dei compiti e dei diritti, alla politica in diretta. E violata nell’intimo del suo riposo, contenuta e degna di fianco all’autostrada, L’Aquila lassù dorme in lenzuola sfatte, stuprata due volte. Stuprata forse tre, ché mentre la sua alba si paralizza, davanti alle telecamere si alternano le promesse che le genti d’Irpinia mantengono vive, perché disattese, dal lontano 1980.