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martedì 16 giugno 2009

Occhio di Lynch

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"Occhio di Lynch"

sabato 19 luglio 2008

appunti

All’inizio la saliva estranea provoca un fastidio dolcissimo. Le labbra schiuse, mai osato petali così. Scoprire che l’oscurità esplora più gradazioni di rosso, arpioni ed enigmi, ambivalenze e magnetismi… Poi la lingua, la prima volta è intensamente terrestre. Ogni lumaca le è fedele. Scivola, s’adagia. Ed ha sopra, dove le dimensioni sono friabili per l’umida mollezza, come una strofa d’echi...
La natura delle finzioni potrebbe smettere d’essere tale. Quale è di preciso il nodo, se c’è, fra natura e finzione? L’imitazione ha pochi pregi e troppi demeriti. Percorribile finché lo sguardo non si fa eretto. In quel momento ogni piana gli stringe la gola perché domina la sua indole una necessità di penetrazione. La finzione è l’imitazione di un panorama interno.


sabato 5 luglio 2008

No, no. Immotivando negazioni si contrasta il sole. Negando motivi no, è il contrario luminoso. Iniziare col no. No, non si può. Non senza… senza cosa se non senza me? Lambisco ormai di tangente lo scoglio d’osso che a dolce assorbito promette, dietro terra, il frutto. Come singhiozzare, cercare… se possibile tornare… riassaporando la mutezza altrui tornare alla nebulosa elettrica. Un decoroso ciao di palmo, farlo schietto, fine quanto piombo. Sostare troppo a lungo nel mondo degli altri – che s’è definito realtà… ma già quel troppo esaurisce il concetto – mi fermo. Cinque righe e mezzo di sincerità possono bastare a chi ha alle spalle terra smossa di fresco – “deve aver sepolto… è naturale, ambo le cose è natura”. Sei righe di sincerità sull’incapacità della sincerità (che non può, non sa, non ha potere) o dell’esser sinceri (che non può più, che ha dimenticato, che ha un lampo inghiottito). Sette righe per descrivere a se stessi quello che s’è saputo solo attraverso queste.
Credo ancora di avere qualche legame con l’elettricità. Non è una moda. Neppure una finezza. È una trattativa segreta fra vita e morte, non senza sesso, non senza dolore, non senza estasi, con sesso dolore ed estasi, questa di avvertire vincoli con organismi che sarebbero i più perfettamente svincolabili. Credo che inizi a mancare l’esercizio, o il prefisso auto, che è uguale. Otto righe abbondanti per allarmarmi sul pavimento vischioso che va al degrado o al semplice disallineamento dall’essenza e dall’istinto. Quando si viene al mondo, indipendentemente dal momento, ci si inizia a perdere.
ossession
l’ansia mangia l’ultimo sonno e
l’ultima vocale

giovedì 26 giugno 2008

un cinema che liberi


L’evoluzione della percezione umana, sindacabile attraverso l’evoluzione del gusto delle masse, è naturalmente educata dalle forme d’arti popolari tramite una ricezione dell’opera che, essendo il destinatario la massa, ed essendo l’opera un’opera progettata per la massa, ed essendo il mezzo della rappresentazione un mezzo unidirezionale (che non offre al destinatario spazio di manovra, né di pausa riflessiva) non può che avvenire in maniera distratta. Pur nella distrazione – o esattamente in virtù della distrazione – il destinatario si abitua a nuovi canoni con estrema velocità e agevolezza. Esempio lampante è l’educazione al linguaggio sintetico, allo slogan, alla rapidità di movimento delle immagini, che sono propri del prodotto per eccellenza destinato alla massa: la pubblicità. Da lì infatti giungono i toni lampeggianti e shockanti dei notiziari televisivi, da lì i titoli seducenti e i montaggi degli approfondimenti in seconda serata, da lì, addirittura, i tempi comici e i tormentoni del cabaret. Con una conseguente, e in taluni casi stonata, omologazione e somiglianza fra i suddetti generi che pure nascono ovviamente assai difformi. Non si esime da tale fascino d’omologazione il cinema, che d’altronde con la sua nascita segna il primo spostamento di baricentro dell’esposizione artistica verso la massa più che verso il singolo o un poco nutrito pubblico – come invece la pittura.
Nei suoi prodotti più popular – che per intuibili ragioni finiscono per essere commercialmente i più redditizi, anche a seguito di monopolizzazione del mercato – il cinema si dimezza in opere ad un unico livello che si fondano sul ritmo sostenuto, sulla preponderanza dell’azione, su un evidente e inequivocabile messaggio di buona morale, sui colori sgargianti. Più di tutto, su un unico livello. Vale a dire che il rappresentato non ammette sfoghi narrativi paralleli, né apre canali espressivi differenti da quello principale. Esiste una sola linea (è o no l’era degli assolutismi?), una sola verità, o piuttosto un solo modo di cercare e rappresentare la verità, ed ogni indagine che sia tangente a quella linea rischia di apparire fuorviante, deviante e deviata.Fra le rade deroghe ammesse a questo poco nobile realismo – che reale realismo non è, giacché la realtà, lungi dall’essere una linea, è un piano costituito da molteplici e multicolori linee – v’è lo smontamento e rimontamento alterato della sequenza temporale, essendo il tempo l’ultima divinità, quasi ossessionante, che la civiltà che comanda in ambito artistico e non solo (evidentemente quella occidentale) subisce e coltiva con sensibilissima devozione. Il percorso che conduce a tale ammissibilità passa tuttavia per frange di opere che, pur sacrificando la loro piena portata semantica, eseguono una sorta di affinazione delle barriere logiche del pubblico stimolandone la crescita proprio, e paradossalmente, per vie che contraddicono parzialmente e momentaneamente la distrazione con cui si recepisce il prodotto cinematografico. I migliori film di David Lynch, “Mulholland Drive”, “Lost highways” e, con un discorso ancor più estremistico, “Inland empire”, escono sconfitti dal confronto col grande pubblico poiché lo rendono retrivo. Tuttavia pongono indubbiamente le basi affinché altri prodotti, mediati da una minore violenza espressiva, riescano ad incrociarsi col pubblico: film come “Elephant” di Van Sant, dove la sequenza temporale è sottoposta agli incontri fra i personaggi, quasi a voler racchiudere nella (in)comunicabilità il mistero del film e della vicenda di cronaca cui questo si ispira; o ancora il recente “Before the Devil Knows You’re Dead” di Sidney Lumet, dove l’alterazione temporale è simbiotica ai punti di vista dei personaggi, con l’effetto di acuire la claustrofobica solitudine della quale si nutre la tragedia; o ancora la trilogia sul dolore ad opera del regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu (“Amoresperros”, “21 grammi” e “Babel”) dove la frantumazione del tempo sembra rispondere alle domande sul senso della sofferenza con altre domande.
È attraverso tali esempi che il cinema può ergersi a baluardo contro l’ottundimento cui la massa è esposta a causa del vortice di autodistruggenti messaggi pubblicitari; è attraverso questi apparenti gesti di presunzione, questa tensione all’elitarismo, che il buon cinema deve pungolare il pubblico stimolandone la crescita, la capacità critica, e la volontà – ma la necessità! – di riflessione. A patto però che questo o altri simili approcci non si istituzionalizzino nella forma-canone, altrimenti si correrebbe il rischio di incappare in un notiziario scomposto e rimontato – cosa che, in quest’epoca in cui informazione e politica sono pericolosamente limitrofe, sarebbe d’un chilo più tragica dei 21 grammi che pesa l’anima.

Ciro Monacella