lunedì 12 ottobre 2009

Vivere da morire - 'Inglorious basterds'

Con I mangiatori di patate Van Gogh struttura deformazioni che attestino un “modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili”; l’Étant donnés di Marcel Duchamp fora lo spazio-esposizione e il suo sedimento di emotività codificate per aprire al baratro dell’inatteso, del macabro, dello sporco; la stessa evoluzione tematica di David Lynch traccia una sorta di scacco alla linea, alla ragione del prima e del dopo, e si appresta a dimostrare le indimostrabili nebbie del dentro. L’arte ovvero, quando vuole essere buona, si propone come via alternativa alla realtà. Come altro dalla vita. Una sonda profondamente estranea che tuttavia ne colori in fluorescenza i legamenti e gli altri nervi fondanti.
L’Inglorious Basterds di Tarantino, avendo analoga volontà, non si riduce a semplice vendetta. Per quanto nobile, la vendetta resta una ragione intima. Ci si vendica di un amore sbagliato, come in Kill Bill; ci si vendica nel nome di un genere minore, come in Grindhouse; ci si può perfino vendicare per uno sconcio massaggio ai piedi, come in Pulp Fiction. Ma il nazismo in quanto fenomeno oggettivo e non ideologia vuole che gli si applichino norme o punizioni che rasentino l’universalità. Questo nazismo è lo snodo cruciale, politicamente ed eticamente, dal quale si dipanano le realtà politiche ed i cardini etici del nostro tempo. La sua metabolizzazione è epocale quanto e di più dell’accettazione del genocidio indio seguito alla bella storia di Colombo, quanto e di più delle teste imparruccate dei re francesi e della loro scia di sangue, di destabilizzazione. Finché Bin Laden non abbatterà tutte le torri dell’occidente, o finché iraniani o cinesi non si decideranno a prendersi i nostri ruderi, la meccanica industriale di Hitler ed Himmler resta la più fedele traduzione oggettiva dell’idea di male.
Da qui parte il film. Per forza. E non si tratta di frangente occasionale né di scenografia, quanto piuttosto di uno stratagemma che occorre ad astrarre in primo luogo, poi a giustificare – o a farne quasi oggetto di forte brama – ogni gonfiatura sanguinolenta o meno. Il dilemma è il solito, vecchio e ritrito dubbio morale sulla disponibilità da parte dell’individuo sano – o che pur viziato dal tempo è comunque espressione del vizio minore – a compiere del male contro il male assoluto. Le solite storielle e aneddoti del tipo “Austria 1913, c’è il giovin pallido Adolfo, che fai? Lo ammazzi o no?”. Storielle simili riprodotte con interscambiabilità di particolari in libri e film buoni o pessimi. Ma è il come che conta. Cioè, se Eva non fosse uscita dal costato di Adamo la storiella avrebbe evocato poco, insegnato meno, interessato nulla. E allora, se a discutere dell’eventualità di chiudere la guerra accoppando Hitler sono uno spietato colonnello nazista e due feroci “bastardi”, seduti al tavolo in legno di una locanda parigina, con bottiglia di rosso e telefono per negoziare la pace, con solennità adatta al momento e strafottenza a completare lo spettro, a saturare il palato, vuol dire che tutto quanto è stato precedentemente presentato va consapevolmente a stravolgersi come una costola che si trasforma.
Tre vie al dilemma. E tre vie che lo realizzano e superano: la via della passione, ovviamente femminile quanto una sposa ferita, vestita di rosso, fuoco e fiamme, amore e passione… ogni passione, compresa quella feticista, quella per il cibo, quella per il cinema; la via sadica, quella dei muscoli buoni e cattivi, della tortura giusta e, a tragedia chiusa, della purificazione, della costruzione di sé dopo la distruzione del mondo; la via del calcolo, del pensiero più svelto della narrazione, dell’indole felina a rivoltarsi in caduta, delle unghie e dei polpastrelli d’ogni predatore.
Queste le tre linee, e fin qui solchiamo ancora la solita precettistica tarantiniana. Ma il regista cresce: accade il fenomeno raro ma plausibile per cui con le lodi e gli osanna, coi consensi e le emulazioni, sembra che Quentin venga senza dubbio riconosciuto come il più completo rappresentante della sua arte, cioè come colui che è più vicino al pubblico popolare e colto – egli pop e cult, egli capace di livelli di differente spessore e leggibilità incastonati in un meccanismo frenetico; accade che la sua libertà venga accettata, riconosciuta, e che in conseguenza si nutra di nuovo entusiasmo, e cresca, e cresca fino a farsi voce larga, fino a infilare le braccia nel mito, a lavorarlo di polpastrelli e a tirarlo fuori perfettamente aderente a quanto occorreva, a quanto era giusto che fosse. Quindi, stando le tre linee di sopra, se tradotte in un nuovo e più ardito come avremo il capolavoro. La prima via di superamento del dilemma, quella femminile e accesa, porta ad un’apocalisse giusta; un inferno giusto perché ottimo nel luogo e nel caso, partorito dallo schermo cinematografico che prende vita e libera forme di fuoco, lingue e voci: ogni cosa è decisa nel cinema; ogni cosa può l’alternativa alla vita, l’arte. La seconda e la terza via, quella del sadismo dei bastardi e quella del calcolo del colonnello Hans Landa, sono geneticamente destinate a convergere in uno spasmo finale che sa di ultimo segno, di punto: la più atroce punizione per chi pur macchiato è sopravvissuto è appunto la sopravvivenza con la macchia, il ricordo dell’infamia, la sottrazione del comodo oblio.
E allora Tarantino è cresciuto. È uscito dal Manhattan Beach Video Archives portandosene dietro un po’, certo: una quantità definibile a patto di masturbazioni bibliotecarie per topini affamati di citazioni. Ma ad un livello più esterno la sua epica sembra intendere i caratteri della civiltà occidentale, sembra lavorare di sartoria sui vecchi miti perché le calzino aderenti. Il suo gioco si fa serio. E più sotto, dietro gli intenti, il linguaggio si affina e la tessitura narrativa si perfeziona. Ad esempio, i colpi di scena sono assolutamente sconvolgenti perché favoriti dall’intimità che si ha con i personaggi grazie al particolare modo in cui sono costruiti; e dalle loro evoluzioni e cedimenti psicologici che, virtù dello schermo e sua autorità, diventano dello spettatore. Tarantino ci mente, ci inganna, ci manipola nel momento in cui mente, inganna e manipola i suoi personaggi. Tarantino ci tortura. Ma viene il dubbio, in tutta questa foga, in questa voglia d’altro che non sia secca vita, viene il dubbio che non sia il regista a manipolare i personaggi quanto piuttosto i personaggi a vivere dentro la carta. Vivere così forte della carta al punto da regolarmente morirne: sarebbe la massima libertà questa resa alla finzione.

6 commenti:

davide ha detto...

cosa non è il gioco delle carte, l'impersonare anche lì, ancora, e ancora, non c'è attore non c'è ruolo e tutto è interpretazione e tutto è reale, fantasia e realtà, sempre fedele, il cinema è vero e le storie son tutte vere, e lì, con la pelle d'oca, capisci chi hai davanti, quando in 20 secondi si riconosce in king kong, e sai, lì capisici..

muna ha detto...

no hay banda
no hay banda

caro davide, stai citando una scena che non è solo una scena. è come un fondale, su quella poggiano le cose e di quella sono intimamente fatte. basterebbe quella scena a far riconoscere la proprietà di quel mondo, la sua appartenenza a quentin. basta quella scena a dire cosa sia degno di nota psicologica per il regista, cioè per il suo tempo, cioè per tutti quanti gli altri.

alfredo ha detto...

Siamo d'accordo, la forza rappresentativa sfonda, ed alla fine, carta canta. Questo era d'altra parte quell'ideale d'altri tempi d'arte "oltre". mi chiedo che possiamo farcene noi ora adesso di ciò, ma vengo da due giorni di diarrea virale sono pessimista

Unknown ha detto...

Alfredo come possiamo farne a meno, questo
mi chiedo io intanto che fuggo da Baaria inseguito
da Barbarossa, mentre incalza la romanitudine
sovvenzionata, ciao

'o munaciello ha detto...

ALF, anche io sono pessimista. Sputo muchi da una settimana. Ho colori spenti continuamente davanti agli occhi, i colori delle cose di dentro. Però, e l'avrei pensato anche in fase d'ottimismo, di quest'arte non possiamo farcene niente. Arriva di tanto in tanto, come a schizzi, da gente che riesce a sfruttare i canali del commercio "supino". Possiamo solo resistere nell'attesa del prossimo schizzo. Oppure riparlarne.

EGI, fuggi fuggi da Baaria! Tornatore parla proprio bene ma i suoi film secondo me andrebbero visti a spezzoni. Barbarossa com'è? Ma già ce l'hai? Ma che razza di mulo hai tu Egino'? Hai un mulo dopato? 'Sti milanesi!
:)

alfredo ha detto...

e riparliamone allora. E riparlandone schizziamo