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giovedì 26 giugno 2008

un cinema che liberi


L’evoluzione della percezione umana, sindacabile attraverso l’evoluzione del gusto delle masse, è naturalmente educata dalle forme d’arti popolari tramite una ricezione dell’opera che, essendo il destinatario la massa, ed essendo l’opera un’opera progettata per la massa, ed essendo il mezzo della rappresentazione un mezzo unidirezionale (che non offre al destinatario spazio di manovra, né di pausa riflessiva) non può che avvenire in maniera distratta. Pur nella distrazione – o esattamente in virtù della distrazione – il destinatario si abitua a nuovi canoni con estrema velocità e agevolezza. Esempio lampante è l’educazione al linguaggio sintetico, allo slogan, alla rapidità di movimento delle immagini, che sono propri del prodotto per eccellenza destinato alla massa: la pubblicità. Da lì infatti giungono i toni lampeggianti e shockanti dei notiziari televisivi, da lì i titoli seducenti e i montaggi degli approfondimenti in seconda serata, da lì, addirittura, i tempi comici e i tormentoni del cabaret. Con una conseguente, e in taluni casi stonata, omologazione e somiglianza fra i suddetti generi che pure nascono ovviamente assai difformi. Non si esime da tale fascino d’omologazione il cinema, che d’altronde con la sua nascita segna il primo spostamento di baricentro dell’esposizione artistica verso la massa più che verso il singolo o un poco nutrito pubblico – come invece la pittura.
Nei suoi prodotti più popular – che per intuibili ragioni finiscono per essere commercialmente i più redditizi, anche a seguito di monopolizzazione del mercato – il cinema si dimezza in opere ad un unico livello che si fondano sul ritmo sostenuto, sulla preponderanza dell’azione, su un evidente e inequivocabile messaggio di buona morale, sui colori sgargianti. Più di tutto, su un unico livello. Vale a dire che il rappresentato non ammette sfoghi narrativi paralleli, né apre canali espressivi differenti da quello principale. Esiste una sola linea (è o no l’era degli assolutismi?), una sola verità, o piuttosto un solo modo di cercare e rappresentare la verità, ed ogni indagine che sia tangente a quella linea rischia di apparire fuorviante, deviante e deviata.Fra le rade deroghe ammesse a questo poco nobile realismo – che reale realismo non è, giacché la realtà, lungi dall’essere una linea, è un piano costituito da molteplici e multicolori linee – v’è lo smontamento e rimontamento alterato della sequenza temporale, essendo il tempo l’ultima divinità, quasi ossessionante, che la civiltà che comanda in ambito artistico e non solo (evidentemente quella occidentale) subisce e coltiva con sensibilissima devozione. Il percorso che conduce a tale ammissibilità passa tuttavia per frange di opere che, pur sacrificando la loro piena portata semantica, eseguono una sorta di affinazione delle barriere logiche del pubblico stimolandone la crescita proprio, e paradossalmente, per vie che contraddicono parzialmente e momentaneamente la distrazione con cui si recepisce il prodotto cinematografico. I migliori film di David Lynch, “Mulholland Drive”, “Lost highways” e, con un discorso ancor più estremistico, “Inland empire”, escono sconfitti dal confronto col grande pubblico poiché lo rendono retrivo. Tuttavia pongono indubbiamente le basi affinché altri prodotti, mediati da una minore violenza espressiva, riescano ad incrociarsi col pubblico: film come “Elephant” di Van Sant, dove la sequenza temporale è sottoposta agli incontri fra i personaggi, quasi a voler racchiudere nella (in)comunicabilità il mistero del film e della vicenda di cronaca cui questo si ispira; o ancora il recente “Before the Devil Knows You’re Dead” di Sidney Lumet, dove l’alterazione temporale è simbiotica ai punti di vista dei personaggi, con l’effetto di acuire la claustrofobica solitudine della quale si nutre la tragedia; o ancora la trilogia sul dolore ad opera del regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu (“Amoresperros”, “21 grammi” e “Babel”) dove la frantumazione del tempo sembra rispondere alle domande sul senso della sofferenza con altre domande.
È attraverso tali esempi che il cinema può ergersi a baluardo contro l’ottundimento cui la massa è esposta a causa del vortice di autodistruggenti messaggi pubblicitari; è attraverso questi apparenti gesti di presunzione, questa tensione all’elitarismo, che il buon cinema deve pungolare il pubblico stimolandone la crescita, la capacità critica, e la volontà – ma la necessità! – di riflessione. A patto però che questo o altri simili approcci non si istituzionalizzino nella forma-canone, altrimenti si correrebbe il rischio di incappare in un notiziario scomposto e rimontato – cosa che, in quest’epoca in cui informazione e politica sono pericolosamente limitrofe, sarebbe d’un chilo più tragica dei 21 grammi che pesa l’anima.

Ciro Monacella

venerdì 11 aprile 2008

mettersi in gioco, giocare come alla messa quando avevi anni tot e le ragazzine altrettot e gli sguardi calavano barbari nelle camicette

è un gioco del soppy raccoon

Manderei a casa molto volentieri – sicchè tanta volontà leva condizionabilità al tempo e passo al – mando a casa molto volentieri ogni forma di leghistico scampanilìo, del tipo imbracciar fucili – contrastabili/decorabili assai saggia mente come tu coon dici a furiosi dildo. Imbracciar fucili, che poi si inspallano i suddetti se proprio li si vuole funzionanti… lega nord a casa dunque per questa superficialità di cognizione motoria-sparatoria; la lega di sotto tambièn a casa per l’ovvio anascrostismo dei mai carchi fucili siciliani che, più tosto ove non più duro, mai furono debracciati/despallati (!). Il mio voto andrà a Sir Wolter, perché è ora, perché è stagione, perché detesto l’alternanza, i ciondoli, le amache, gli orologi cucù, le altalene vuote mosse dal vento, e il vento invisibile che porta odore di fogna d’Arcore.
Vale.

Ehi, su libmagazine parlo di Kundun, un raro e prezioso Scorsese semi-d'annata