Se percorri l’autostrada le passi di fianco, e lei è lì con l’aria d’esserci da sempre, L’Aquila. Come affaticata conserva una discrezione antica che solo le montagne centrali sanno preservare, e tu distratto passante di colpo avverti d’aver violato un pudore. Come spiassi dalla finestra una donna all’alba, stanca del corpo, adagiata in una corona di monti. Quando fuori dall’abitacolo è freddo e il vento affilato dagli Appennini ti macchia gli occhi di neve, quella donna si copre di lana bianca celando i fianchi, nascondendo ancor più il respiro. E mai nella sua alba, ugualmente, si accorge di te. Bruno Vespa è aquilano. Con voce comprensibilmente smagliata s’affaccia sulla prima serata di rai uno dall’elicottero che a bassa quota sorvola la città. Illustra l’arte che fugge dagli squarci delle cupole, i tetti piovuti in strada, le palazzine pur antisismiche aggrottate come latta. Sotto la sua voce, a tratti sopra, fruga nella piaga Henry Purcell con la musica per i funerali della regina Mary II Stuart, la regina della Gloriosa Rivoluzione. Per un istante c’è della solennità tanto nella reattività umida delle sue corde vocali, quanto, e soprattutto, nella gloria appannata del vecchio occhio del cronista: lontano dal salotto televisivo, dalle mogli illustri e dalla vischiosità del pettegolezzo, Vespa sembra acquisire il rigore morale dell’uomo della strada. Tanto più se la strada s’apre in baratri. Ma poi si torna in studio. Coi ministri e la telefonata del Presidente del Consiglio, il quale, dotato di sensazionale opportunismo, non perde occasione per improvvisare un mini-consiglio con Maroni e Matteoli. L’aquilano torna a succhiare potere. Il suo studio, il suo posto, torna ai ritmi spudorati della distribuzione dei compiti e dei diritti, alla politica in diretta. E violata nell’intimo del suo riposo, contenuta e degna di fianco all’autostrada, L’Aquila lassù dorme in lenzuola sfatte, stuprata due volte. Stuprata forse tre, ché mentre la sua alba si paralizza, davanti alle telecamere si alternano le promesse che le genti d’Irpinia mantengono vive, perché disattese, dal lontano 1980.
4 commenti:
Bello il tuo post, ottima sintesi e tanta tristezza, che resta.
Sei un novello Diogene.
(indovini chi sono io? :-)
Caro Ciro, come non notare il "miniconsigliopportunisticomediatico" del cavaliere e dei suoi adepti. ;)
ti ringrazio Franca :)
anonimo, sei Alessio Vinci.
Gians, so'forti quelli
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