lunedì 30 giugno 2008

¡Què viva Espaňa!

da LibMagazine


Premessa
Questa finale rappresenta una novità negli ultimi anni. Una domanda inedita circa gli orientamenti sportivi, poiché contrappone storia a prospettiva. La prima è il calcio tedesco, la seconda è la bella Spagna. Nei mondiali nippocoreani del 2002 l’indole da capitalismo aggressivo dell’estremo oriente aveva reso possibile la costruzione di un’aurea di commerciabilità attorno al fatto sportivo, e la finale arbitrata da Collina sembrò l’unica partita vera, anche perché il più era fatto (la Corea era già in semifinale, e la finale vedeva contrapposti i colossi degli sponsor tecnici Adidas per la Germania e Nike per il Brasile, con una bella pace da blocchi in guerra fredda). Agli europei del 2004 la questione era stata fra i ballerini di casa portoghesi e i muratori greci (muratori non per professione ma per attitudine in campo), e la risoluzione in favore della Grecia difensivista aveva dato nuovo respiro ai teologi della difesa – si tratta di teologia poiché il gioco difensivo è con evidenza una torsione della verità calcistica: paralizzarsi, non segnare per non subire reti, ovvero l’uomo non faccia i propri passi ma aspetti l’indice divino, o il calcio d’angolo a favore. A Berlino nel 2006 la finale fra Italia e Francia significava il confronto tra due squadre che dell’agonismo facevano virtù, la prima ne aveva in maggior quantità e organizzazione, ma la seconda lo poneva al servizio del genio (leggasi Zinedine Zidane) finendo tragicamente per dipenderne. In ogni caso, contrapposizioni antiche.

La domanda
La novità di questo campionato europeo non è allora la Germania finalista. I tedeschi praticano da sempre il loro gioco muscolare: la loro trama è quella delle fondamenta stabili che culminano in guglie variegate, ove alte e sfondanti, ove esili e penetranti; la loro forza è nella propensione a travolgere dopo aver respinto l’assalto nemico, un po’ come l’Italia e la Francia di sopra. Tanto che in queste formazioni è spesso il terzino l’uomo che scardina la difesa avversaria perché il centrocampo è forgiato alla lotta, ai cuori grossi e ai piedi non eccelsi. La nuova domanda invece la pone la Spagna, e recita: si può vincere senza difendersi?Prima di organizzare una risposta si badi alle implicazioni di tale domanda: vincere senza difendersi significa annientare l’avversario. Mettersi in condizione di non difendersi significa mettere l’avversario in condizione di non offendere. Per fare questo occorre “nascondergli la palla”, avere un continuo e pieno controllo del gioco, disporre d’ardimento e sapienza sufficienti a modulare i propri movimenti su più ritmi, in considerazione della resistenza fisica e dell’impossibilità di rifiatare senza possesso palla. Nascondere la palla significa mostrarla mentre la si rende impalpabile, edificarle attorno architetture labirintiche. Occorre aver studiato dai brasiliani, senz’altro, ma muovendosi da premesse europee più realistiche: cioè il calcio resti calcio, e non ballo. La formazione spagnola è in Europa l’applicazione integralista di questo pensiero. Il suo centrocampo, che altrove è abbassato a funzione di filtro (eccezion fatta per i Pirlo e i Ribery), non ha randellatori né scassinatori, ma abili e delicatissimi fiorettisti. Basti pensare che l’uomo più arretrato è un brasiliano naturalizzato, tal Marcos Senna, che svolge in campo i compiti che sono anche del nostro santificato Pirlo: passo preciso, visione di gioco, individuazione dello spazio da percorrere, monitoraggio del ritmo. Davanti a lui non c’è gente che ringhia. Ci sono Iniesta, Silva, Fabregas, Xavi, ragazzi che sanno come toccare la palla, che sanno come leggere i movimenti dei compagni in chiave offensiva, che sanno quali spazi andare ad attaccare. In breve, il centrocampo spagnolo si limita a giocare a calcio, e non è poco. La fase difensiva esegue una visione ingenua, fanciullesca, del calcio: difendono solo i difensori, e qualche volta (vedi Sergio Ramos) attaccano pure loro. Siamo però fermi all’interrogazione “si può vincere senza difendersi?”, dunque mandiamoli in campo e vediamo.

Germania-Spagna
I primi dieci minuti rispondono di no. La Germania fa valere una certa pratica con l’evento finale, la sua storica arroganza, mentre gli spagnoli appaiono asfittici e incerti. Sembra che non si possa vincere senza difendersi, perché occorre una concentrazione e una consapevolezza audace che a frangenti può mancare – d’altronde ciò che ordina al piede buono è sempre il cervello, la cui buona salute è soggetta a variabili incontrollate. Poco dopo però la Spagna si assesta. Inizia, masso dopo masso, e passo a passo, l’edificazione del labirinto. Senna, destinatario privilegiato della prima palla, è marcato stretto, allora sale a raccoglierla Xavi sempre più spesso, pescando gli uomini e gli spazi del regista. Poi, fatto largo, la rende a Senna e si propone fra le linee tedesche. In una di queste situazioni è pronto a riceverla alla tre quarti proprio da Senna. Il tempo di voltarsi verso il puntero Torres, già glie la dà, dritta e radente oltre il centrale e sottovento rispetto al terzino Lahm. Lahm ha grande tecnica, grande agilità, ma Fernando Torres quanto a progressione, potenza e facilità di corsa può sotterrarlo. Lo sotterra. Lehman è scavalcato. Uno a zero per le furie rosse, si alzano i regnanti, esultano, si ricompongono. I tedeschi reagiscono di stizza, palla alta e sotto a sportellate: Ballack si rompe l’arcata sopracciliare. Il primo tempo finisce con una prospettiva sporca di sangue: non solo si può vincere senza difendersi, ma è ancor più facile farlo se già si sta vincendo, perché in quel caso basta solo mantenere calma e possesso – l’un l’altro reciprocamente propedeutici. Inizia il secondo tempo che per una decina di minuti alla Germania pare semplice il gioco del calcio. In fondo basta che qualcuno, magari sulle ali, salti un uomo, che la metta in mezzo e qualcosa dovrà pur accadere se hai più centimetri d’altezza. Ma dura dieci minuti appunto. Poi gli spagnoli si riappropriano della palla: labirinti e labirinti. L’uscita c’è, si sa, altrimenti la definizione sarebbe disonesta e ingannevole, ma l’arte sta nell’illusione prospettica: la palla c’è, poi sparisce, poi riappare, poi s’avvicina alla porta tedesca, quasi gol. Più passano i minuti più i bianchi sono stravolti perché i loro attacchi s’arenano sui piedini agili degli spagnoli, i quali a loro volta ripartono, e non segnano il secondo solo perché s’innamorano di se stessi. Finisce così, il secondo portiere al mondo, Casillas, alza la coppa – il primo portiere al mondo, Buffon, aveva smarrito la squadra.

La risposta
È arrivato quanto cercavamo: si può vincere senza difendersi, soprattutto se chi attacca sa vincere solo difendendosi (Germania oggi, Italia ieri). Ma, clamoroso, la Spagna dimostra che si può vincere divertendo: basta un pizzico di coraggio. ¡Què viva Espaňa!

la vignetta di libmagazine

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Salve!
Occhio di Lynch!!
Spagna uber alles
sembravano drogati quasi
scoppiati i panzer nel 2° tempio.
Va da sè che agli europei si scoppia nel secondo tempo, tranne
Platinì che vince sempre
chiunque vinca.
il banco vince sempre.

Unknown ha detto...

parole come manna vincere senza difendersi, annientando l'avversario
quanto me gusta!

'o munaciello ha detto...

---> da, il banco y el blanco siempre ganan

---> egine, me gusta marijuana me gustas tu!