La morte di Oreste Lionello farà a pezzi Woody Allen più di quanto fosse disgregato il suo “Harry a pezzi”. Lo disarmerà di uno degli strumenti con cui l’attore opera l’arduo congiungimento fra la sua identità e quella del rappresentato: la voce. E che lo si voglia o no anche questa sciagura è una conseguenza del ventennio in camicie nere.
Il protezionismo culturale dei regimi fascisti in Italia e in Spagna ha imposto il doppiaggio dei film in lingua straniera proprio nel momento in cui il cinema s’accingeva ad essere riconosciuto come forma artistica, e un istante prima che s’affermasse come forma artistica fra le più popular. La nostra platea è stata dunque foraggiata di voci impostate, trattate con unguenti e pomate, recitate con solennità toscaneggiata al microfono buio di una saletta e poi montate sulla pellicola dei maestri francesi, spagnoli, americani. L’immediata conseguenza è stata una certa impreparazione di massa alla lingua straniera proprio per noi, Italiani, che sempre fummo a districarci tra ispanici, arabi, germanici e franchi. Impreparazione che, a differenza del nord Europa in cui c’è la sottotitolazione, provoca ulteriormente una “nuova” intolleranza (“nuova” in considerazione della nostra storia mediterranea) per il diverso o l’incomprensibile che non può essere scissa dalla disabitudine alla lingua straniera. L’ultima conseguenza è invece la mutezza di Woody Allen.
L’attore ha il compito, in contrasto con la realtà di finzione nella quale si muove, di convincere della fedeltà dello schermo, o quanto meno di com-muovere ad esso. Su queste due distinte vocazioni si fonda la differenza fra il successo popolare degli attori che esprimono, e il successo altrettanto popolare degli attori che vengono espressi; tra Sean Penn e Brad Pitt, per intenderci, o tra Servillo e Scamarcio. Ma il caso di Woody Allen è estraneo a questa dinamica perché, in rispondenza alla sua autarchia “morettina”, non esiste confine direttamente percepibile fra il rappresentante (l’attore), il rappresentato (il personaggio), il regista (l’architetto, l’autore del tratto del disegno), e lo sceneggiatore (colui che concepisce il disegno, il padreterno appunto). Proprio per questo la voce di Oreste Lionello è divenuta negli anni forza di gravità in Italia di un mondo che si presenta e si muove ed è Woody Allen. Indubbiamente sarà disponibile un altro doppiatore capace di balbettare, di accelerare e decelerare con violenza, di raffreddare il timbro. Ma quella simbiosi tutta strutturata di frenesia e inquietudine intellettiva, di squarci di debolezze e scivolate di cinismo, è stata fra Allen e Lionello un miracolo tecnico: il doppiatore non fa, ma è la voce. E se è la voce, il doppiatore è un pezzo. Forse quello principale: si tratta della gravità che radicava, ad esempio, Bob De Niro al fiotto rustico e sanguigno di Ferruccio Amendola e che, alla scomparsa del doppiatore, si è sfibrata come una muraglia di sabbia asciutta. Tanto che oggi, complici alcune scelte poco opportune, lo schermo non si rimpicciolisce più, come faceva un tempo, quando a recitare c’è De Niro. Così difficilmente ci sarà un doppiatore capace di sostituire Lionello, e non ne deriverà che una toppa cucita su una lacerazione della tela che a ogni attenta e partecipata visione non potrà camuffare i segni dell’ago e del filo, e i pezzi del Woody a pezzi.
Il protezionismo culturale dei regimi fascisti in Italia e in Spagna ha imposto il doppiaggio dei film in lingua straniera proprio nel momento in cui il cinema s’accingeva ad essere riconosciuto come forma artistica, e un istante prima che s’affermasse come forma artistica fra le più popular. La nostra platea è stata dunque foraggiata di voci impostate, trattate con unguenti e pomate, recitate con solennità toscaneggiata al microfono buio di una saletta e poi montate sulla pellicola dei maestri francesi, spagnoli, americani. L’immediata conseguenza è stata una certa impreparazione di massa alla lingua straniera proprio per noi, Italiani, che sempre fummo a districarci tra ispanici, arabi, germanici e franchi. Impreparazione che, a differenza del nord Europa in cui c’è la sottotitolazione, provoca ulteriormente una “nuova” intolleranza (“nuova” in considerazione della nostra storia mediterranea) per il diverso o l’incomprensibile che non può essere scissa dalla disabitudine alla lingua straniera. L’ultima conseguenza è invece la mutezza di Woody Allen.
L’attore ha il compito, in contrasto con la realtà di finzione nella quale si muove, di convincere della fedeltà dello schermo, o quanto meno di com-muovere ad esso. Su queste due distinte vocazioni si fonda la differenza fra il successo popolare degli attori che esprimono, e il successo altrettanto popolare degli attori che vengono espressi; tra Sean Penn e Brad Pitt, per intenderci, o tra Servillo e Scamarcio. Ma il caso di Woody Allen è estraneo a questa dinamica perché, in rispondenza alla sua autarchia “morettina”, non esiste confine direttamente percepibile fra il rappresentante (l’attore), il rappresentato (il personaggio), il regista (l’architetto, l’autore del tratto del disegno), e lo sceneggiatore (colui che concepisce il disegno, il padreterno appunto). Proprio per questo la voce di Oreste Lionello è divenuta negli anni forza di gravità in Italia di un mondo che si presenta e si muove ed è Woody Allen. Indubbiamente sarà disponibile un altro doppiatore capace di balbettare, di accelerare e decelerare con violenza, di raffreddare il timbro. Ma quella simbiosi tutta strutturata di frenesia e inquietudine intellettiva, di squarci di debolezze e scivolate di cinismo, è stata fra Allen e Lionello un miracolo tecnico: il doppiatore non fa, ma è la voce. E se è la voce, il doppiatore è un pezzo. Forse quello principale: si tratta della gravità che radicava, ad esempio, Bob De Niro al fiotto rustico e sanguigno di Ferruccio Amendola e che, alla scomparsa del doppiatore, si è sfibrata come una muraglia di sabbia asciutta. Tanto che oggi, complici alcune scelte poco opportune, lo schermo non si rimpicciolisce più, come faceva un tempo, quando a recitare c’è De Niro. Così difficilmente ci sarà un doppiatore capace di sostituire Lionello, e non ne deriverà che una toppa cucita su una lacerazione della tela che a ogni attenta e partecipata visione non potrà camuffare i segni dell’ago e del filo, e i pezzi del Woody a pezzi.
Da LibMagazine
4 commenti:
nonostante per lavoro, non faccia altro che elaborare le loro voci, non mi sono mai posto il problema, o meglio, la scuola dei doppiatori italiani, anche per quanto dici è di certo la migliore in assoluto, spero per me e per loro che continui ad esistere, il mio è un discorso di parte, che esula da quanto dici e che ritengo assolutamente fondato. un abbraccio ciro caro.
Caro Ciro, la morte di un grande doppiatore fa perdere all'attore doppiato una perte di sè (successe lo stesso con i vari De Niro, Stallone, Hoffman doppiati da Ferruccio Amendola). Però in Italia siamo gli unici che doppiano ancora i film. All'estero vige la ferrea legge della lingua originale. Allen poi ultimamente si limita a dirigere senza recitare. Anche se dovessi vederlo in futuro con un'altra voce mi cadrebbe un po'.
Caro amico, ti disturbiamo perchè sul tuo blog il nostro piccolo banner non è più visibile o non è aggiornato con la nuova immagine e con il nuovo link.
Tuttavia risulti ancora iscritto al nostro aggregatore. Per provvedere segui le istruzioni che trovi in questa pagina http://libmagazine.eu/wordpress/?page_id=157. Grazie mille.
:-)
Io Woody senza quella voce....
brrr, brividi
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