Da Libmagazine di qualche tempo fa
Italia Brasile, filosofie a sconfronto
A corrodere il tappo mediatico sono bastate la tragedia di Eluana Englaro, la connessa pantomima di Mentana, e qualche barbone arso vivo con nonchalance. Così alla fine, con o senza Cesare Battisti, con o senza Lula e La Russa, all’Emirates di Londra è andata in scena l’amichevole Italia-Brasile senza eccessive polemiche. Con una certa sorpresa nemmeno la definizione data al match da Falcao (“il derby del mondo”) ha solleticato la logorrea vaticana che avrebbe potuto scorgere in quel “del mondo” uno sbilanciamento verso l’ammissione di altre forme di vita nell’universo, giacché il concetto espresso dal “derby” ha significato solo se indica il confronto tra due schiere geograficamente individuabili entro una ben più vasta, e superiore, entità spaziale che coincide con gli spettatori. (Ops, entità spaziale?)
Allora s’è giocato. E la nazionale ha rimediato due bei ceffoni. Volendo essere sintetici questa riflessione potrebbe chiudersi nei due prossimi righi. Il punto è: gli europei hanno portato il pallone in Sudamerica, e i Brasiliani gli hanno strappato il cuoio. Ora provate un po’ a contendere il campo a ragazzotti mulatti che calciano aria con delicatezza, precisione, ed eleganza di movimenti. Il calcio è abitudine popolare quanto la divinità; e in quest’ordine estremo s’ammetterà che i brasiliani posseggono le navate meglio affrescate, i transetti più luminosi. Per contro, la nostra storia sportiva dal dopoguerra in avanti – e cioè da quando la pratica bellica s’è fatta professionale, e lo spirito di rivalsa nazionale volente o nolente si fa veicolare dallo sport appunto, e dal calcio in particolare – ha confermato lo stereotipo dell’italiano codardo che solo quando la cacca, ormai alle ascelle, gli impedisce di sollazzarsi d’arte, donne e santità, inizia a combattere spiazzando l’avversario con uno scarto d’orgoglio – o, tatticamente, con un cambio di ritmo. Sport e guerra a braccetto. Ma, diamine, Italia-Brasile è un’amichevole e gli azzurri lo sanno quanto i verdeoro. Solo che questi ultimi sanno calciare l’aria meglio dei nostri a parità di sorriso. È in qualche modo questa la loro religiosità, il juega bonito. Così, sorridendo sorridendo, fra una bicicletta e un paso doble, fra un tacco, un velo, e un no-look, s’impossessano del rettangolo con andatura da libeccio. Forse tranquillizzano, di certo assopiscono. E poi, come faceva il miglior animale d’area degli anni ’90 dotato del peggior veleno mai prodotto da piedi terrestri, Romario de Souza Faria, in una frazione di secondo tirano fuori la testa dal cesto e azzannano alla gola. Gli azzurri sorridono, mosci, parrocchiali nel loro buffo tentativo di rispondere al tacco volante e al controllo gommoso della sfera: gli europei hanno ancora contatto col cuoio. Però che palle il sorriso! E che bontà il tonfo del cuoio, il suo stridere sul prato coperto solo dal suono acuto di una scivolata maligna!
E chissà in quale voluta del fumo d’un sigaro, nell’intervallo gli italiani capiscono che l’amichevole è territorio brasiliano per filosofia. E s’incazzano. Tornano in campo meno carioca e più argentini, ovvero punti da quel nascosto valore mitologico che affonda filamenti dietro il colpo ben assestato sullo stinco di chi ti irride sambando. È un’altra partita: Pirlo la smette di farsi affascinare dai suoi capelli quando cambia direzione; Pepe è fortunatamente fuori come, altrettanto fortunatamente, lo sbarbatello Gilardino (costui, un uomo un diminutivo); dentro Toni, Rossi e Camoranesi, gente cattiva, gente un po’ tedesca, un po’ americana e un po’ argentina. Non si ride più infatti: Zambrotta rimbrotta il cittì Dunga, e i ragazzi lottano per briciole di pane e poche righe di sale come va fatto in ogni cancha. Tant’è che il secondo parziale si conclude zero a zero, e tutto è rimandato a quando il divario fra vittoria e sconfitta, ai mondiali del 2010 in Sudafrica, non consentirà troppo margine d’arzigogolio. Come sempre questione di cacca, certo. E di ascelle basse.
Allora s’è giocato. E la nazionale ha rimediato due bei ceffoni. Volendo essere sintetici questa riflessione potrebbe chiudersi nei due prossimi righi. Il punto è: gli europei hanno portato il pallone in Sudamerica, e i Brasiliani gli hanno strappato il cuoio. Ora provate un po’ a contendere il campo a ragazzotti mulatti che calciano aria con delicatezza, precisione, ed eleganza di movimenti. Il calcio è abitudine popolare quanto la divinità; e in quest’ordine estremo s’ammetterà che i brasiliani posseggono le navate meglio affrescate, i transetti più luminosi. Per contro, la nostra storia sportiva dal dopoguerra in avanti – e cioè da quando la pratica bellica s’è fatta professionale, e lo spirito di rivalsa nazionale volente o nolente si fa veicolare dallo sport appunto, e dal calcio in particolare – ha confermato lo stereotipo dell’italiano codardo che solo quando la cacca, ormai alle ascelle, gli impedisce di sollazzarsi d’arte, donne e santità, inizia a combattere spiazzando l’avversario con uno scarto d’orgoglio – o, tatticamente, con un cambio di ritmo. Sport e guerra a braccetto. Ma, diamine, Italia-Brasile è un’amichevole e gli azzurri lo sanno quanto i verdeoro. Solo che questi ultimi sanno calciare l’aria meglio dei nostri a parità di sorriso. È in qualche modo questa la loro religiosità, il juega bonito. Così, sorridendo sorridendo, fra una bicicletta e un paso doble, fra un tacco, un velo, e un no-look, s’impossessano del rettangolo con andatura da libeccio. Forse tranquillizzano, di certo assopiscono. E poi, come faceva il miglior animale d’area degli anni ’90 dotato del peggior veleno mai prodotto da piedi terrestri, Romario de Souza Faria, in una frazione di secondo tirano fuori la testa dal cesto e azzannano alla gola. Gli azzurri sorridono, mosci, parrocchiali nel loro buffo tentativo di rispondere al tacco volante e al controllo gommoso della sfera: gli europei hanno ancora contatto col cuoio. Però che palle il sorriso! E che bontà il tonfo del cuoio, il suo stridere sul prato coperto solo dal suono acuto di una scivolata maligna!
E chissà in quale voluta del fumo d’un sigaro, nell’intervallo gli italiani capiscono che l’amichevole è territorio brasiliano per filosofia. E s’incazzano. Tornano in campo meno carioca e più argentini, ovvero punti da quel nascosto valore mitologico che affonda filamenti dietro il colpo ben assestato sullo stinco di chi ti irride sambando. È un’altra partita: Pirlo la smette di farsi affascinare dai suoi capelli quando cambia direzione; Pepe è fortunatamente fuori come, altrettanto fortunatamente, lo sbarbatello Gilardino (costui, un uomo un diminutivo); dentro Toni, Rossi e Camoranesi, gente cattiva, gente un po’ tedesca, un po’ americana e un po’ argentina. Non si ride più infatti: Zambrotta rimbrotta il cittì Dunga, e i ragazzi lottano per briciole di pane e poche righe di sale come va fatto in ogni cancha. Tant’è che il secondo parziale si conclude zero a zero, e tutto è rimandato a quando il divario fra vittoria e sconfitta, ai mondiali del 2010 in Sudafrica, non consentirà troppo margine d’arzigogolio. Come sempre questione di cacca, certo. E di ascelle basse.
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