Da Rapporto Confidenziale - numero 7, luglio/agosto 2008
FERRARA: ABEL RINTRACCIA CAINO
Abel Ferrara è nel suo corpo, nella sua faccia da doberman pestato, quanto è in ogni suo singolo film. La sua natura di camminatore degli spigoli e degli spaghi sospesi sull’abisso lo incatena ad una apparente monotematicità che, dietro una patina di prevedibile schematismo, cela puntualmente un’incrinatura. Basta averne visto solo due film, a caso, per avvertire quanto fondante sia nel suo corpo, nella sua faccia e nella sua arte, ad esempio, la riflessione sul cristianesimo. Da lì, alla velocità dello spirito santo, si passa alla riflessione su Dio. Da lì, stessa velocità di prima, alla riflessione sull’arte, ovvero sulla sola attitudine che l’uomo abbia mantenuto dalla – e della – sua creazione: la ri-creazione.
Il discorrere di Ferrara ha il senso della individuazione di un orientamento a mezzo di continue e lancinanti opposizioni. Qui risiederebbe lo schema. Tuttavia, ben lontano dalla logica “A è opposto a B perché la loro unione dà piena simmetria”, il discorso di Ferrara scova nell’opposizione un punto di rottura. Quello che in altri tempi sarebbe stato osannato col nobile lemma dilemma, qui, in tempi in cui droga e alcool offrono tanto per poco (o poco per tanto) è un’equazione algebrica da risolvere facendo a meno della scienza. Il dilemma è un concreto, meccanico, inceppo. Talmente concreto, o talmente meccanico, che la sua forma visibile è l’esito di una sperimentazione condotta in fase creativa dallo stesso regista sul suo proprio corpo/faccia/film – da qui il pestaggio. Esso esprime di volta in volta non tanto la pretesa della corretta scelta al cospetto di una biforcazione sul sentiero morale, ma una domanda sulla possibilità che il suddetto sentiero esista – altrimenti la morale non adempirebbe alla sua funzione ordinatrice.
In “The Addiction” (1995), ad esempio, la domanda è: se il male appartiene all’uomo, se esso esiste solo nell’uomo, se l’uomo stesso ne è plagiato ed assuefatto tramite le sue estrinsecazioni, l’idea della catarsi ha una natura diversa da quella della mera illusione? Nel successivo “The Funeral” (“Fratelli”, 1996) la portata di questa domanda si estende rompendo l’orizzonte: ammettendo per fede un disegno divino, e ammettendo in esso il ruolo polemico se non fondante del male, quale è la collocazione dell’uomo in tale disegno se non quella di oggetto, e strumento, di morte? Ovvero, il disegno di Dio prevede che Egli alla fine resti da solo? Perché allora disegnare?
In “Dangerous Game” (“Occhi di serpente”, 1993) la domanda è: la libera e cosciente scelta della propria dissoluzione ha un limite? E nella definizione di questo limite – e di quello del proprio libero arbitrio – in qual misura l’uomo ha da dar conto a Dio e in quale al prossimo suo? Qui il personaggio interpretato da Harvey Keitel è alle prese con un film per la cui regia sacrifica la salute mentale dei propri attori. Il titolo del film è “Mother of Mirrors”. Verso la fine della lavorazione il regista-Keitel attraverso il film denuderà la propria volontà di redenzione, e ogni dialogo di finzione si posizionerà in una prospettiva tale da svelare come la vicenda fosse votata alla comprensione di sé da parte del soggetto (e oggetto) creatore. Ecco che il titolo del film nel film, questa madre degli specchi, è l’arte stessa. Colei che riflettendo svela e svelando riflette. Il passaggio obbligato per ogni luogo che giaccia sotto la pelle. Ferrara dunque appartiene a quella ristretta cerchia di autori per i quali l’attualità è implicita e permanente. Costoro sono i soli in grado di forzare i limiti anche a rischio di dipingere lo stesso quadro per tutta la vita: dalle rinnovate sfumature di questi si capisce il mondo più che dalla fantasmagorica peripezia di un qualsiasi Spielberg. Costoro posseggono quella noce di malattia che li torce alla risposta, e loro è il regno dei cieli checché ne dica il re, loro è il regno d’oltre-schermo:
OLTRE LO SCHERMO: LA MADDALENA
La metateatralità dunque, che non può essere passeggera, si ripropone ancora una volta addensandosi di connotazioni religiose – e non a caso il metateatro sta al teatro (ne è sostanza e nutrimento) come la vita alla morte (indagine risolta dalla funzione della religione) – in “Mary” (2005). Qui “This is my blood”, il film nel film del regista indipendente Tony Childress (Matthew Modine), è la rivisitazione del fulcro della religione cristiana. Si narra del momento cruciale in cui dopo la morte di Gesù si tarano le autorità degli apostoli, con partecipata attenzione alla figura di Maria di Magdala – la Mary interpretata da Juliette Binoche. In un fotogramma che riprende il set s’intravede il profilo curvo e in schivata di Abel Ferrara, di sfondo rispetto al vero (ma di fiction) regista Modine. Ora, considerata la meticolosità seppure ruvida di Ferrara in fase di montaggio, considerata la sua precisa ma arrogante architettura drammaturgica, non si può non ammettere che la sua presenza in scena – narrativamente ingiustificabile – sia stata inclusa per ragioni indipendenti, dunque, dalla coerenza narrativa. Perfino in contrasto con essa. Il senso di quella presenza va interpretato alla stregua di un sigillo: è un tratto d’inchiostro fatto di proprio pugno che intende certificare l’integrale autenticità della riflessione. Ciò di fatto scalza la figura del regista Tony Childress dalla comoda posizione dell’alter ego, per rinviarla ad una estensione particolare e storicizzata dell’autore. Il personaggio interpretato ottimamente da Matthew Modine non è altri che una porzione di Abel Ferrara per nulla in opposizione rispetto al totale; più precisamente è la porzione che s’interroga sulle versioni di divinità trasmesse dalle scritture, e su quelle al contrario compatibili alla luce dei recenti ritrovamenti (il cosiddetto Vangelo di Tommaso, o Quinto Vangelo, rinvenuto in Egitto nel 1945 tra i Codici di Nag Hammadi). La ricerca di Ferrara è orientata a seconda dei suoi lavori per direttrici assai variegate, ma tutte accomunate dalla impellenza della denudazione. La verità è oggetto di circumnavigazione. Nel caso di Mary, la verità sulla fede. Dunque la fede stessa.
Ferrara qui adopera tre fili tematici in movimento centripeto: c’è la vicenda del regista che lotta per poter dire ciò che pensa; c’è la vicenda dell’attrice Marie Palesi che non riesce ad uscire dal personaggio di Mary; c’è il popolare anchorman Ted Younger (il solito monumentale Forest Whitaker) che scivola nella domanda sul divino per ragioni personali. I tre muoveranno gli uni verso gli altri non senza interruzioni, brusche frenate, scarti stizziti. In dondolii che trovano percorsi scomodi, in equilibrio fra emotività e razionalità, in cerca di una via che sia rettamente praticabile, mentre l’occhio allucinato di Ferrara ritrae e scompone, cattura e fonde. C’è una sequenza, ad esempio, in cui per la prima volta entrano in comunicazione Marie Palesi e Ted Younger – di fatto i due estremi quanto a vicinanza alla posizione mistica della cristianità. La loro conversazione è telefonica, Ted è in una metropoli, Marie è a Gerusalemme. Ferrara riesce a creare un vincolo d’immagine fra i due attraverso la sovrapposizione di tre inquadrature in sfumato: restano più o meno fissi i due personaggi (la densità dello sfumato varia, si carica e si scarica), mentre la terza inquadratura è il luogo, dapprima il notturno metropolitano con le sue luci cadenti, in seguito l’esterno pomeridiano di una spianata sabbiosa in medioriente. Qui la delicatezza del passaggio è sintomatica di un processo d’estrapolazione di singolarità dalla totalità, quasi una testimonianza visiva del triplice ma unitario afflato divino: gli uomini, i due poli dialettici della questione, vincolati (e poi svincolati) alla natura del creato e al luogo reale tramite l’immagine.
Nonostante il tema appaia impegnativo, Ferrara non manca di fornire all’andamento del film le sue consuete virate ironiche. Un’ironia che di colpo solca il blocco d’argilla lasciando un marchio, un punto d’approdo o di partenza stabile nella memoria: il film s’intitola “This is my blood”, e nel presentarlo il regista, che narcisisticamente ha scelto se stesso per la parte di Gesù, lo introduce dicendo “questo è il mio film, e questo è il mio sangue”, dove film sostituisce l’eucaristico corpo, e diventa con ammirevole audacia esso stesso atto memoriale del sacrificio di Cristo. Il film, nell’ottica del regista/porzione di Ferrara, è della sostanza dell’ostia, e la sua funzione è un’annunciazione. Di cosa? La trama suggerisce una risposta ben più rivoluzionaria della “moderna fiction che ha fatto della Maddalena l’amante di Gesù” – si riferisce a Dan Brown. Maria di Magdala è, in nome dell’antica e bieca invidia maschilista, un ostacolo per gli apostoli a causa della sua vicinanza spirituale al Cristo. Costoro non possono tollerare che Gesù abbia scelto lei. In sostanza lo scenario proposto segue il vangelo gnostico di Maria che fa della conoscenza, una conoscenza intuitiva, prerogativa unica per la salvezza. Si può ben avvertire come questo scenario sia conflittuale e, seppure ricco di suggestività, interamente da verificare. Siamo cioè al punto di rottura, al dilemma o inceppo.
Tuttavia non è arduo, considerando Cristo l’artefice di un moto di rinnovamento morale dalle forti implicazioni sociali, immaginare che alla sua morte gli apostoli si siano venuti a trovare nella condizione, del tutto umana, di organizzarsi per evitare la dispersione o la alterazione del materiale umano sedotto. Non è arduo quindi immaginare che, come in ogni successione accade, certe posizioni abbiano prevalso su altre. E la suggestività sta nell’idea che nel film è attribuita a Tommaso, assai vicino alla Maddalena, per cui Gesù non fosse l’unico figlio di Dio, ma lo fosse in maniera identica rispetto a tutti gli altri uomini. È nella condotta di vita che la natura del rapporto padre-figlio si specifica. Però, ammettendo l’assoluta normalità del Cristo, si sarebbe permessa la sottrazione della sua cristianità, dell’unzione, la sottrazione della sacralità. Sacralità, a sua volta, determinante per la costituzione di una chiesa con tanto di simulacra.
Si comprende bene come questa riflessione abbia rappresentato per Ferrara una sfida interiore che richiama la sofferenza del protagonista del suo “Il cattivo tenente” – tra l’altro si possono ammirare analoghe sanguinose inquadrature del crocefisso. E proprio alla luce di tale sofferenza, di tale ostinazione nell’affondo, si può rileggere il titolo del film nel film come fosse la dichiarazione di una raggiunta pace interiore. “Questo è il mio sangue” può dirlo solo colui che ha smesso di sanguinare o che, al limite, ha già riaperto gli occhi sul proprio sangue. Che poi il film non approdi ad alcuna certezza non venga considerato un refuso: la grazia di Ferrara è nella sua assenza di grazia, la potenza della sua voce è nella sua voce sciupata, la sua coerenza è nella sincerità dell’incoerenza, la sua forza… le palle:
LE PALLE DI FERRO DI FERRARA
Quando Ferrara dice che bisogna avere le palle solo per avvicinarsi al suo “Il cattivo tenente”, non lo fa per istrionismo o spicciola spavalderia. Di certo l’idea di rifare un film ancora attualissimo e per niente superato è enigmatica non tanto per inadeguatezza del nuovo regista (Werner Herzog dovrebbe essere in grado di non tradire l’opera) quanto per il ruolo da protagonista che ricade su Nicholas Cage. Buon attore senz’altro, il coppolino, plasmabile nel volto e capace di trasparire malesseri, ma povero del gusto di fradicio che Harvey Keitel trasuda.
Esistono più motivi per cui “Il cattivo tenente” vuole le palle. Anzitutto la necessità del film. La ragione intima della storia è già nella titolazione: un ossimoro di lettura. Lo sfratto della rassicurazione nella nostra società non può che essere la dimostrazione, iperrealistica e scorbutica, del male nel bene. Dal momento in cui la democrazia assicura all’individuo un certo spazio di manovra, il potere della determinazione dei limiti di quello spazio, e del loro integro mantenimento, è messo nelle mani di coloro che per strada, e non nei palazzi dove si discutono le norme, combattono le violazioni e permettono il permesso: la polizia. Da ciò deriva che la sensazione di legalità come percepita dalla collettività, e ancor più in profondo la sensazione di tranquillità, dipenda strutturalmente dalla piena coincidenza fra la divisa, e il buon ruolo pubblico che essa impegna, e l’essenza carnale in chi abita quella divisa. Il fatto che Abel Ferrara ritragga un tenente dalla psicologia complicata che tuttavia è ascrivibile all’ampia definizione di cattiveria, significa una sola cosa: la nostra realtà fonda la propria somma virtù – la promessa di una vita migliore e più serena rispetto ad altre civiltà – su una premessa che è solo apparentemente inattaccabile; ma che se attaccata costituisce l’abbandono del singolo a se stesso, in un’architettura che umanamente e urbanisticamente non fa che accentuarne il disastro. Primo punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” mostra una falla nella nostra concezione di civiltà.
Ancora, buona parte della tensione narrativa poggia su un inesorabile ma graduale tracollo. Al di là del falso nucleo del poliziesco (lo stupro, di cui parleremo sotto), questo tracollo è inizialmente incentrato sulla finale del campionato di baseball fra Mets e Dodgers, sul cui esito c’è un ricco giro di scommesse clandestine. Il cattivo tenente partecipa a quelle scommesse con ostinazione. Continua a giocarsi la vittoria dei Dodgers e puntualmente perde, ma rigioca il suo debito ancora una volta, al raddoppio, perdendo. Questo aneddoto, di per sé poco significativo non fosse che per una sua estrema americanità, ha la duplice valenza di stringere l’imbuto attraverso il quale il protagonista dovrà passare – s’evince che questo è il tipo di film in cui lo spettatore, a dispetto della abominevole condotta del personaggio, parteggia inevitabilmente per lui –, e di mostrare come la mala sorte sia una miope sfasatura. È chiaro a tutti, nel film e in platea, e addirittura ad una parte del tenente (quella che ai colleghi suggerisce la giocata contraria alla sua e dunque vincente) che la serie di finale ha preso la via dei Mets. Ma il tenente non accetta. Incurante di ogni minimo segno, s’incaponisce nella sua giocata. Perché? Perché già non ha scelta: l’unica giocata che può è quella che gli cancellerebbe il debito. Allora la sua mala sorte è nell’assenza di scelta, ma non solo, perché anche in una scelta obbligata possono coesistere interpretazioni differenti della stessa. Lui sceglie di scommettere sulla sua redenzione, ovvero sulla bontà della sorte a prescindere dai segni del mondo. Secondo punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” mostra che ogni gratuita credulità ha uno scotto salato.
Ancora, la monaca stuprata è una donna di sensazionale bellezza. La sua pelle candida e nuvolosa straborda dalle lacerazioni dell’abito sacro in una scena di inarrivabile anticristianità: cade la Madonna, il Cristo agonizza in croce, il crocefisso le squarcia il sesso. La suora è un personaggio maschera, la fervida credente obnubilata dalla fede, in qualche modo rapita dal suo abito come la Marie Palesi di “Mary” è rapita dal suo abito attoriale. Tuttavia il suo corpo desiderabile è una violenta recriminazione. Interpretabile come una scelta esteticamente furbetta del regista (mai viste monache così belle!), o come un frangente sacrificato al realismo (perché altrimenti stuprare una racchia in più monaca?), il corpo della suora va rivisto alla luce della sua reazione nei giorni successivi. Ella perdona gli aggressori, anzi si affligge interiormente poiché non è stata in grado di alleviare le pene di quei ragazzi emerse in una così autentica preghiera. Il suo corpo, il suo essere al contempo carne e desiderio, è la natura del suo sacrificio, ovvero il suo inchiodarsi alla croce. Terzo punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” adegua al tempo l’essenza del cristianesimo.
Ancora, tanto è maschera la suora quanto mascherato è il cattivo tenente. È l’uomo che non comprende la fede, né il possessore della fede, né la propria incapacità di raggiungerla – gli riesce solo di rinnegare questa sua incapacità. Il personaggio che si dimena di fronte alla pace che di colpo rinviene nella suora, e che a lui sembra essere proibita, non fa che lottare contro la sua condanna alla cattiveria. Se fino allo stupro egli aveva vissuto in totale dissipazione di sé (“i vampiri sono fortunati – gli dice la sua donna/spacciatrice – perché si nutrono di persone che incontrano, mentre noi dobbiamo mangiarci le gambe per camminare”), assorbito dalle droghe e da una sessualità corrotta e incontenuta (crudissima e imponente la scena della masturbazione di Harvey Keitel), dopo l’incontro con la dimensione altra della fede egli sa riconoscere la sua disperazione. Finalmente piange. Ulula di stomaco come ferito a morte. D’un tono di lamento animale che s’avvertirebbe nei boschi, di notte, smarrito l’orientamento. Quel momento segna il destino del cattivo tenente: egli decide di cibarsi di sé in maniera differente, e s’accompagna alla fine dopo un ultimo, contrastato, sacrificio. Ed è la potenza del racconto ad avvisarci che il dilemma che regge tutto il film non può essere mero campo d’addestramento cinematografico: Abel Ferrara deve aver attinto da dentro di sé tanto la cattiveria quanto il suo reciproco ideale. Quarto punto allora: occorrono le palle perché “Il cattivo tenente” non discute il generico o l’universale, ma il particolare animo del regista. Si tratta di arte come cucchiaio, essa scava in cerca di un’io che sia senza mediazioni:
L’IO IM-MEDIATO: NEW ROSE HOTEL
Tratto dal racconto cyberpunk di William Gibson, New Rose Hotel è il nome del cunicolo d’albergo da cui X (Willem Dafoe) ripercorre nell’ultima mezz’ora di film le vicende fin lì narrate. In un futuro indeterminato ma a gittata di fuoco, due spie industriali (Dafoe e Christopher Walken) assoldano una prostituta italiana (Asia Argento) perché circuisca un geniale ingegnere genetico, ma i piani pur razionalissimi sono travolti dalle forze nere che fanno sottotraccia nell’essere umano.
L’intreccio appare a lungo, nella sua diluizione, un mero pretesto per la definizione filosofica dell’ambiente e della lettura delle circostanze che nel dato ambiente allacciano i destini dei protagonisti. L’ombra di chi ha creato opacizza il tessuto senza concedere troppo al topos narrativo: navighiamo, appunto, in un io. Il centro, a giustificazione delle intenzioni dei due faccendieri, è la scienza intesa come l’ultima forma della domanda sul senso. “Una vita senza ricerca non vale la pena d’essere vissuta”, dice Walken, colui che ha abbandonato da tempo la ricerca della virtù e che non sa più neppure se la virtù sia conoscenza o se invece la conoscenza sia virtù. Walken dice che secondo i Greci “la virtù è centrare il bersaglio”, ma mentre fino al secolo scorso il superamento del limite consisteva nell’esplorazione, ad esempio dell’antartide, oggi quel varco risiede “nell’esile porzione della mente” dello scienziato: la ricerca. Quella scintilla, non altro, è virtù. Allora tutto può e deve rileggersi già dall’inizio: la solidità apparente del personaggio interpretato da Walken, che a tutti gli effetti è il teorico tanto dell’operazione di spionaggio industriale quanto della sua pretesa ideologica, è aperta alla contraddizione. La sua ricerca, affannata, turbata al limite dell’insanità, è più irresistibile che mai, e continua a volgersi verso un’idea già meglio definita di virtù.
Ma i movimenti sono quelli degli insetti fra i funghi del sottobosco. Già alla caduta del sipario ci accoglie uno spazio cupo, sensoriale, in cui la luce che definisce le forme è filtrata in un unico totalizzante rosso. Mentre intorno voci femminili si alternano in canti d’abbandono al canto stesso, come se il canto, e con esso il corpo e le labbra e le mani erotiche, disegnino già dall’inizio la possibilità che una realtà di riserva esista. Il canto è un porsi più in alto, o più dentro, comunque via dal metro quadro che abita il corpo. E in questa deriva di sensi Ferrara rende al meglio perché egli è sporco, il suo ondeggiare è da angoli di vicolo, il suo filmare è iniettato d’eroina. Ma con misura, mantenendo il galleggiamento in piena perpendicolarità al baratro. Allo stesso suo modo si adeguano gli attori, magnetizzati in un fascino putrido come sopravvissuto ai tumori e alle radiazioni. Lupi, ovvero “occhio scintillante, labbra affilate, costole in mostra”, sono gli attori e il regista. Lupo è l’uomo – come già e ad oltranza in “The Addiction” – , la sua voglia è un abito che deve essere coerente, intimamente vincolato alla consapevolezza che sia così.
Da questo humus salgono frasi come “(…) la solita spaccapalle in giarrettiera che fa venire all’uomo complessi di inferiorità”, in descrizione di una donna cui si accompagna un “non è di indole gentile”, dove la gentilezza è, qui in definizione della donna unitamente alla prima espressione, la generosità sessuale, l’assoluto darsi. Ossia la capacità, e la potenza, di insinuarsi senza freni fra le pieghe più infossate della realtà – ancora il sesso come varco – per superarla ed arrestarsi in una dimensione divina o, più bassamente, orgasmica. È evidente come Ferrara tenga a conservare nel suo cinema una prerogativa di letterarietà che altrove langue, giacché ogni frase, ogni parola, è alta, profonda, pregna di due o più livelli. E sebbene non abbia accesso ai brodi creativi e alle pozze organiche come Lynch, Ferrara è comunque capace di scorticare perchè ha dimestichezza con il lato d’ombra dell’uomo quanto Cronenberg, ma da premesse, e con modalità di indagine, differenti. Si noti ad esempio come l’ultima parte del film, lungi dalla riproposizione del già narrato intendendolo strumento di commemorazione, agisca a ristrutturare la memoria nella memoria per trovare la verità del passato, per raggiungere il reale presente. Allora le stesse scene saranno viste da inquadrature leggermente diverse, da altri punti di vista, e ciò arricchirà il ricordo gettando nuova luce su parole abbozzate, piccoli sorrisi ingolfati, accenni di emozioni che solo in quanto riletti possono essere estratti dal nugolo di macchinazioni che l’uomo innesca. Risulterà evidente, ad esempio, senza grossolana psicologia, il sintomo della finzione della donna/puttana/spia, il segnale della sua molteplice recitazione: ella di fronte ai dubbi di lui alza la posta, promette di più, promette l’eternità; ma chi ama è simbiotico all’oggetto amato, e la donna realmente innamorata sarebbe contagiata dal dubbio; l’unica ragione per cui si promette il massimo è una goffa, ma efficace, volontà persuasiva. Ecco, tornando al regista, si può dire quanto sincero egli sia nella sua completa assenza di promesse: tutto è lì, raggomitolato in una narrazione concisa, economico e paziente nella volontà di evidenziare la cancellazione di ogni mediazione fra se stesso e la rappresentazione. Rappresentazione, poi, che sembra godere d’umiltà nel suo concludersi in fretta affinché lo spettatore la riempia col suo lavoro di riflessione da un angolo buio, da un angolo sospeso fra gli angeli del passato e i demoni del futuro… dal suo personale New Rose Hotel.
1 commento:
Da un capolavoro come "fratelli" ad un film di una mediocrità disarmante come "go go tales". Ferrara mi è caduto in basso.
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