venerdì 23 maggio 2008
lunedì 19 maggio 2008
Gomorra, la critica si divide. Speriamo non si moltiplichi.
'e fatt e' sord
Domenica notte, a Cinematografo, alcuni miei illustri colleghi – questa fama in splendente divergenza dalla competenza è il più evidente sintomo della malattia che affligge il nostro paese – hanno parlato del film che ho proprio ieri recensito per il piccolo grande Libmagazine. La giornalista cattolico-femminista Anselma Dell’Olio, che i più fortunati di voi conosceranno solo come moglie di Giuliano Ferrara, ha detto che il film di Garrone tecnicamente non si discute, ma che purtroppo manca di “baricentro narrativo” (così proprio ha detto), che fa distrarre e, in secondo luogo, che manca di “un personaggio al quale ci si possa agganciare”.
Bene, malissimo. Qui, intendendo io rispondere, urge una premessa politica a dispetto degli sforzi che la mia indole vesuvianamente lavica dovrà sostenere. Non mi piace offendere, peggio ancora offendere le donne, pessimo offendere le donne di una certa età – in sostanza non sto a pigliar per culo le vecchie. Però trovo che si possa accennare a baricentri vari solo riguardo a condizioni di precarietà nell’equilibrio di corpi, di fisici, di materia che abbia peso e sensibilità alla forza gravitazionale. Non è il caso del film in questione, più per la sua ossatura granitica ed eterna che per la sostanza effimera della pellicola. Pare quindi – ma rammentiamo la premessa di sopra – che la Anselma parlando del film di Garrone, e nell’atto di guardarlo, si lasci all’indugio su questioni verticali, od oblique, quali il mantenimento della corretta postura – previo ottimale baricentro – che le consenta di avvertire compiutamente lo stantuffo del cavaliere che la monta. Lì certo c’azzecca il baricentro. Non nel film. Che poi ella si distragga è diretta conseguenza di tale ossessione insoddisfatta, mi pare.
Quanto invece al personaggio cui vorrebbe agganciarsi, ricordiamo alla illustre critica che c’è già la poltroncina come poggiaculo fisico, e deve bastare. Che la mente vada dove vuole il regista dimenticando il corpo e ogni aggancio! viva iddio il cinema (ma l’arte) non serve ad altro che a diventare metafisici! È l’unica vita eterna concepibile. Ma ancora, l’atteggiamento di colui che cerca nell’intangibile un perno perché la mente non tema la voragine è il medesimo dell’ateo che in punto di morte principia un dialogo col Cristo. Che poi le si voglia far notare che manca un personaggio cardine perché la collettività è in Gomorra, giustamente e meravigliosamente, il presupposto di ogni discorso… questo è altro paio di maniche, e dubitiamo della sua capacità di comprendere – se s’è distratta già durante il film…
Ma poi, colpo di scena, spunta un altro critico, un giovine di cui non ricordo manco il nome, uno sbarbato più di me che trova l’errore in Gomorra: la mancanza di speranza, dice lui, che già la mala impone alla realtà, non è bene si imponga anche ai sogni. Figurarsi, costui ancora ritiene che il cinema sia “sogni”. Ma cosa più grave, gli è completamente sfuggito il senso dell’opera – pluristrumentale – Gomorra. Si è smarrito nel bassopiano glabro del suo volto.
A costoro, non per vantarmi, non per lusingarmi, consiglio vivamente di andare a leggermi e magari di copiarmi. Lo faccio per loro. Lo faccio per il pubblico di rai uno. È plasmon gratis.
Gomorra
Dal buio nasce l’immagine: l’incipit è la sezione più dichiaratamente espressiva del film. La realtà è trasfigurata dalla luce azzurra della lampada alogena, mentre il suono delle ventole richiama i gorgheggi delle navicelle spaziali. La funzione dell’incipit è qui acutamente metateatrale, serve a tradire i personaggi in scena per comunicare in segreto con lo spettatore, per dirgli della dimensione reale ma alterata, spietata e bicefala, nella quale si entra. E in più, nell’economia della trama, serve a costituire il nucleo di passato storico dal quale certi movimenti partono. Gomorra è già tutta in quell’incipit, condensata, anzi essiccata. Tutto ciò che accade in seguito è aggiunta di vita, di liquido, e allora, il film, si fa di singole vicende (il titolo originario concepito da Garrone era Sei Brevi Storie) accomunate solo dalla materia di cui esse si nutrono: lo spazio. Avremo spazi interni al sistema della camorra e spazi esterni, in uno schematismo che ha l’onere, quasi giornalisticamente, di favorire la comprensione. L’interno è le due storie che si ambientano nelle “vele” di Scampia (un ragazzino che vuole entrare nel sistema, e un tecnico della mala il portasoldi), e la storia di due adolescenti invasati che si sgrana nella pianura di Casal Di Principe. L’esterno invece, che sintetizza la laboriosità dell’impero economico camorrista, è illustrato dalla vicenda di un sarto e da quella dello smaltimento dei rifiuti.
Tale mole di narrabile viene tracciata dal regista con neutralità. La sua presenza è discreta quanto sa esserlo un occhio staccato dal corpo, egli osserva, non commenta, non anticipa, non sospende, ma si limita a pedinare i personaggi senza ossessività, a seguirli negli angusti spazi del degrado come un assetato. Il suo ingresso nella città-Gomorra avviene grazie all’ingresso del ragazzino di Scampia nei ranghi della camorra, ed è lì, nell’addestramento del giovane, che lo spettatore inizia l’apprendimento. E proprio in virtù di questa posizione simmetrica rispetto alla scena, la regia accresce il dramma dell’inatteso: gli agguati, tutti gli agguati, sono vissuti dall’interno, dall’ottica di chi l’agguato lo subisce.
Il realismo della narrazione si evince dalla presenza costante del denaro, a ribadire l’essenza della camorra, che non è principi ma economia, al limite principi economici. Ma che si forma di esseri umani arruolati volontari e non di leva come si potrebbe immaginare, le cui promozioni di carriera sono prestabilite (servizio vedetta, corriere, etc). Proprio la volontarietà dell’associazione è la questione sociale principale. I ragazzi subiscono il fascino di coloro che, nel microcosmo, nel cerchio chiuso del loro piccolo e fetente mondo, hanno ciò che vogliono. Ogni piaga umana nasce dai limiti mentali, che qui coincidono tragicamente con limiti geograficamente fisici. Per cui basterebbe, forse, aprire il microcosmo per destabilizzare quel fascino. Perché di deterrente, al suo interno, ce n’è. Su tutto la guerra, una ferocia disordinata in cui il nemico ha il tuo stesso volto. Ma anche l’avvelenamento dell’uomo, efficacemente fatto argilla dalla vicenda dell’avvelenamento della terra campana con i rifiuti tossici del nordest (Toni Servillo, il faccendiere della camorra addetto allo smaltimento, compare sulla scena uomo-talpa, emergendo dal sottosuolo, ma in giacca). E c’è poi il tumore del male, la storia di due ragazzi che, invasati dalla violenza del contesto, prendono ad emulare il Toni Montana di Scarface e a fare i cani sciolti dando noie al sistema-camorra. Sono il tumore del male, appunto, forse il bene paradossalmente, e per l’ordine e la salute del male vanno estirpati.
Si tratta di un film in cui ogni voce canta la stessa farsa. Corale, si direbbe. Un Magnolia secco. Secco perché assetato ma ancor più perché reale, con il dialetto e le espressioni gergali tradotte a senso nei sottotitoli, con i volti dei non professionisti che recitano a livello dei professionisti. Sono volti a loro agio nel posto e nelle espressioni, ed è questa la forza realistica dell’opera, questo neo-pasolinismo che ha concorso a dare la forma guappo a coloro che in questi posti hanno esattamente, e riconoscibilmente, quella forma, quel viso, quella corporatura, quell’abbigliamento, quella tonalità di voce, quella gestualità. Quindi le musiche che ascolteremo saranno le stesse che ascolteranno i personaggi, ovvero non c’è decorazione superflua, c’è secchezza. Ciò tuttavia non esclude la buona resa di attimi poetici, e qui risalta la bontà visiva di Garrone, come nella scena della danza dei tir resa esclusivamente attraverso l’immagine. Ed è con queste parole non parlate che talvolta, come solo nella realtà talvolta, emerge una parvenza di umanità. Ma è un’umanità rarefatta, fatta rara, è un complesso frangente di debolezza che non può esistere perché equivale alla sopraffazione. È animalità, più che umanità. E proprio in difetto materiale di tutti quegli elementi che di solito costituiscono le fondamenta per il finale, bisogna ammettere quanto fosse difficile da chiudere questo film (ancor più, essendo corale, senza poter disporre dell’uso dell’ultimo canto unificatore). Ma Garrone ci riesce con una non chiusura, con uno spiffero. Gli ultimi cadaveri spariscono pur essendo ancora sulla scena, l’ultimo macabro dettaglio noi non lo sapremo, ma tutto si equivale, tutto è già, perché l’essere qui è nascosto, solo la morte è manifesta – come la camorra, come un agguato. E alla bulimia di questo organismo sotterraneo non c’è salvezza. Le uniche prospettive offerte dal film sono la fuga, come se – e così in effetti è – il luogo sia la condanna, la terra sia non avvelenata ma veleno stesso. Si salveranno coloro che andranno via, poiché il posto è di Gomorra – si badi che lo Stato, nella persona della polizia, fa una sola timida capatina nella storia: lo Stato lì non è. Di coloro che avranno la forza di ammettere la propria differenza, di coloro che avranno avuto talento (l’arte autentica del sarto) è la salvezza.
Un’ultima considerazione. Non di rado capita che negli ambienti socialmente più a rischio alcuni prodotti cinematografici vadano a eccitare quel certo desiderio di emulazione. In Campania, anche a causa delle vicende di censura cui è stato soggetto, questo è accaduto al film Il Camorrista di Tornatore. Non a caso i due ragazzi citano Scarface, ma sulla stessa linea è la saga di Mario Puzo coi suoi Padrini. Ebbene, anche qui Garrone riesce bene a scongiurare il rischio che lui stesso aveva esplicitamente denunciato all’inizio (i due ragazzi entrano in scena proprio scimmiottando Al Pacino) attraverso la scarnificazione di tutti gli elementi patetici, mitici, poetici e romantici che avevano fatto la fortuna commerciale dei film citati (a comprensibile eccezione de’ Il Camorrista). Ecco perché questo film non piacerà a chi s’attende la solita mala da eroismo tragico. Addirittura questo film non deve piacere affatto, perché non intende rassicurare sulla presenza di forme millimetriche di coscienza nei malavitosi: qui i cattivi sono solo cattivi, e quasi tutti i buoni diventano cattivi. Questo film non è medicinale che acquieti i sogni e disponga al riso. È una rasoiata.
Ah, poi l'Inter ha vinto questo lurido scudetto pulito...
domenica 18 maggio 2008
persepolis
L’animazione non può ridursi all’illusione meccanica del movimento né al numero di disegni per secondo. Almeno in ossequio al nome che porta, l’animazione sarà tale quando saprà affondare nel contronaturale dando, cioè, anima/vita al rappresentato in una condizione di assoluta differenza di sostanza fra rappresentato e rappresentante; ovvero anima/vita al disegno, fermo o mobile che sia, senza avvalersi per definizione di quelle cavità espressive dalle quali tecnicamente traspare l’anima/vita dell’essere umano. Operazione ancor più difficile, questa di “animare” il disegno, se si considerano i tanti esempi di pellicole tradizionali esanimi – pensiamo a dozzine di legal thriller ed action movies, che pur riscuotendo enorme successo al botteghino faticano a riempire le suddette cavità espressive di altro che non siano parole concatenate. Persepolis invece, film di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, riesce nell’intento. E l’imitazione della realtà, e la sua riproduzione tramite una miracolosa e fertile relazione fra mente e mano, palesano senza regioni buie quel flusso energetico interiore che rende viva la scena.
Uno degli strumenti utili a tale resa è la poesia, cioè l’ultima sintesi che sappia contenere le attitudini dell’uomo alla adulterazione della realtà. Ad esempio, per rendere l’immagine dell’amore con tutto il bagaglio letterario che questo porta in groppa, Persepolis crea la fusione di due corpi attraversati dallo stesso fumo, essere cioè una sola cosa di fronte all’estraneo (qui è il fumo, il fumo in anticipazione ironica dell’esito di questo – di ogni? – amore). Altro strumento è la coerenza col proprio sistema di segni, col proprio linguaggio, ed è qui che funziona la scelta di essere minimi come si è appreso e coltivato, di essere in bianco e nero per tutto il flashback, di rifiutare la tentazione di Hollywood che proponeva un prodotto nel quale avrebbero trovato impiego i divi pop Jennifer Lopez e Brad Pitt.
Questa storia è poco pop. Al massimo rock. La trama è fondata su un susseguirsi di eventi storici – la piccola Marji vive le turbolenze politiche dell’Iran che si traghetta dal regno dello Shah di Persia al regime di Khomeini, e poi la guerra con l’Irak – narrati con sintetica ma esauriente semplicità come solo chi ha vissuto sa, in barba a tutti i raccoglitori di documenti a chilometri (e chili di benessere in pancia) di distanza. Eppure non si tratta di semplice racconto, di autocertificazione di possedere un passato tanto colorato da rendere plausibile il passo autobiografico. Nella calibratura degli eventi s’insinua la primaria idea che la Storia ha una lettura sempre e solo di parte, che tuttavia nel tempo le parti cambiano, e il risultato è un turbine nel quale le vite dei singoli, che pure della Storia erano stati mattoncini, sono sparpagliate al proprio destino, come se la Storia non li ammettesse nel suo.
Il destino della protagonista si forma attraverso gli impulsi emotivi più puri, attraverso l’incanto per la bellezza, poi il disincanto (ovvero l’incanto per la bruttezza), attraverso il rancore, la vendetta, l’incattivimento. Marji incontra il comunismo, vissuto senza effettiva cognizione, come fanciullescamente amando la barba di quel medico avventuriero argentino in comica antitesi con l’odio che le barbe fondamentaliste di lì a breve suscitano. Incontra quindi l’integralismo, questa occlusione d’intelletto, questo passaporto per il maschilismo. Incontra il proibizionismo con i veli e gli stupidi ed estetici aut aut, e il mercato clandestino di musicassette rock occidentali, e Springsteen, e Rocky Balboa. Poi nella sua seconda rivoluzione a Vienna (ma questa è universale e si chiama adolescenza) incontra l’occidente, il nichilismo, e finisce per guardare negli occhi l’abisso che l’indifferenza della nostra civiltà impone agli individui soli. E la sua traiettoria picaresca, che dal peggio porta al peggio con ironia, allude all’idea di resa apparente per cui la ricerca della felicità fa dimenticare anche di non essere liberi.
Ciro Monacella
venerdì 16 maggio 2008
un rivoluzionario buddista meno fiacco a cannes
Personal Jesus - Johnny Cash
Non dirmi che non detesti le passerelle fino ad un irresistibile desiderio di farne diarrea. Non dirmi che non ti bollono le bolle a quella solita smorfia frettolosa di Brad Pitt, a quei suoi capelli sempre diversi e pettinati, a quel suo guardarsi dietro in cerca di Angelina che, pora sora, è umanissimamente legata al pueblo. Non provarci affatto – a dirmi che resisti allo spettacolo di questi retroquintai capitati per errore nell’epoca del capovolgimento della quarta parete. Non dirmi che non sogni di far buddismo col corpo di un bombarolo anarchico della Spagna degli anni trenta, e scapicollare i trends, le pagliette, i busti e le tartarughe addominate. Non dirmi che seriamente cancelleresti la violenza dalla nostra epoca. È un concetto ampio, cancellata or not. Oggi c’è una sua riduzione, come se il seme violenza venisse illuminato solo negli angoli su cui, per sua natura, quest’epoca è in grado di sgorgare luce. Questa violenza è misera, piccola, miope e scardinabile. Io, questa generazione saltata a piè pari, voglio un azzeramento. E me ne sbatto dei theirspaces dei nuovi fringuelli, buoni a vetrinarsi, a fingere di dire “io son io” piuttosto che “tutto son io”. Ci piscio i capelli. Con buona pace di Brad. Cominciando col chiudere in un armadio la bella Angelina con un toro da corrida. Chissà che non le piaccia pure, alla gioia, che non adotti un Minotauro.
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Nel numero di maggio di RapportoConfidenziale c'è una mia cosa su un vecchio attualissimo film di Luis Bunuel. Vai qui per il sommario completo.
giovedì 15 maggio 2008
la politica fuori dalla pelle
Da un punto d’osservazione superficiale – prospettiva, questa superficiale, ingiustamente vituperata giacché è dal bubbone sulla superficie/pelle del malato che il medico diagnostica la peste – la situazione politica italiana si colora di toni nuovi. L’amabilità di un azzurro tenue con la sua gradazione fredda copre il panorama come un cielo artificiale, acquieta gli animi, dispone al commercio e all’impresa. Tale la distensione del clima politico che, già incubata nella recente campagna elettorale, ora vede luce nel braccetto stretto fra Berlusconi e Veltroni – tutt’altra tavolozza cromatica in comparazione a quel rosso infernal pompeiano lavico che scorreva fra lo stesso Berlusconi e Romano Prodi fino a pochi mesi or sono.
Oggi il presidente del consiglio modera, apre al dialogo poggiando fiducia sull’assenza dal parlamento dei suoi maggiori nemici anti-patici; e poco distante il capo dell’opposizione zampetta zuccheroso in quell’usanza di marca anglosassone che è il governo ombra. Con conseguenze che, fossero studiate a tavolino, farebbero dei due protagonisti della scena il maggior statista degli ultimi cinquant’anni (checché ne dica il Fini ancor dopo Fiuggi). Letto bene: “conseguenze che farebbero dei due protagonisti della scena il maggior statista degli ultimi cinquant’anni”, due che fanno uno. Perché Berlusconi si assicura, in questo clima teatrato da cielo-trumanshow, un quinquennio di sereno poco variabile le cui uniche turbe saranno le poppate di liofilizzato con cui nutrire periodicamente i leghisti. D’altro canto – e canto, nella sua distrazione fonetico poetica, qui è un ridicolo lusso – il capo dell’opposizione Veltroni, che aveva dato principio al nuovo corso con la sventolante maturità del suo opporsi senza l’ausilio capriccioso della sinistra radicale, saprà far tesoro a quinquennio terminato del puntuale fenomeno dell’alternanza, trovandosi, ciliegina su torta, nella condizione di creditore di buona pace. Ovvio che il teorema regge solo se dall’altra parte v’è coscienza del debito. Ne dubito. Questo è un debito improvvido.
Ma la prospettiva superficiale, come abbiamo visto ottima a diagnosticare di che morte morirà il malato, ha il pregio di permettere un ulteriore decollo che altrimenti, giacendo in sottocute, non avrebbe capacità di volo. Si giunge dunque a tale altezza da leggere l’incanalamento del nostro sistema politico in un blando, ma produttivo (il commercio! l’impresa!), modello nordeuropeo quasi calvinista. E la possibilità di non marcire sottopelle negli umori corporei – equivoco che scaturisce dalla visione profonda – ci lascia integri di fronte all’assalto della prospettiva inciucio, che è esclusivamente prodotto biliare.
Da qui, belli in superficie, si legge pure che questo nuovo ordine – che è bene non dimenticare quanto possa essere scoria reattiva di moti d’antipolitica fluiti da “La casta” e grillismi vari – ha però un vincolo di fronte al quale la matura reazione della classe politica bisogna si dimostri quanto meno possibile millantata. Cioè, la riduzione dei gruppi parlamentari da 11 a 6, e la dipartita (v’è più fedeltà semantica, nell’uso del termine, che ironia o intenzione d’offendere) di quei soggetti politici che più di altri erano legati a superate categorie sociali e morali, obbliga il parlamento ad operare nel modo più sano, più limpido, più efficiente possibile. A maggior ragione in uso dell’acquietante cielo artificiale. È però a questo punto che la visione superficiale mostra il limite: nell’immagine del futuro, nella profezia. Che però, stando al discorso alla Camera in cui Berlusconi invoca l’ausilio divino, pare manchi clamorosamente anche al punto d’osservazione più profondo possibile: quello in cui si decide, in cui si agisce. Oh mio dio!
Su Libmagazine anche in due si uccide meglio.
mercoledì 14 maggio 2008
moona tool per al-fahridi
poi
questa è la moona-tool per Al-Fahridi
lunedì 12 maggio 2008
domenica 11 maggio 2008
sano sono sano
Questo spettacolo è quello popolare per eccellenza solo perché eccelle nel prudere il desiderio drammaturgico del popolo. E non è certo poco. Il campionato italiano di quest’anno volge al termine in una corsa avvincente e finalmente libera dai pastrocchi, dai preaccordi, dalle gerarchie, dalle valigette piene di promesse coi filamenti diagnosticanti. Quindi godo se questo Napoli finalmente poco nostalgico smaciulla il giuocattolo del presidente, lo rimastica e lo sputa nudo e raggrinzito dalla porschite. E godo se quella moralissima squadra di Firenze, elegante, toscana, vino ed olio senza prolissi esiti di carburanti, godo se quella freschezza mora affossa il Parma che aveva galleggiato sui reflussi duodenali dei Tanzi. Godo perché fra i viola c’è un talentino bianco, timido e femmineo, adolescente deliziosamente ellenico, che si chiama Montolivo. Godo perché la Fiorentina supera il Milan nella graduatoria per l’assegnazione dei fondi europei, che tanto il Milan avrà comunque quelli italiani, indi fanculo uguale. E godo se il piccolo Siena si permette di fare il muso duro con la capolista Inter. Godo perché Roberto Mancini, il replicante novo millennio dell’acquasanta trapattona, è troppo abbronzato, e non mi fido: l’eccessiva abbronzatura è un bluff – chi può dirlo quanto me? Serve a promettere passati che non si sono vissuti, inesistenti relazioni confidenziali con le stelle, e chi ci impiega tempo ne sottrae all’indagine sulla destrezza tecnica dei propri calciatori. Godo perché finalmente la dimensione parrocchiale dell’Inter viene alla luce – che Liverpool non fu solo una inciso – con l’affanno da goffo polifemo risucchiato dalla non più brillante Roma. Una squadretta, la Roma, addirittura senza Totti, che ora vorrei vincesse lo scudetto.
Questa è la moona-tool per escopocodisera,
se ne vuoi una anche tu, per te, la faccio per te ma solo se,
solo se, te, te scrivi a mooncium@libero.it
sabato 10 maggio 2008
primavera e trinità
La primavera in questa fase incattivisce. I friccicori, ancora acerbi, virano sull’asprezza come frutti nervosi. O viceversa. Capita perché la mente non regge il passo dell’adattarsi del corpo ai nuovi tempi, ai nuovi pollini, ai nuovi tracciati della stella. E poi trionfano le mosche, lasciano le loro scheletriche ombre le zanzare, e le api tornano a far edilizie dei pergolati e delle tegole sopra i citofoni – che va bene: meno scocciatori. La mente no, è un essere conservatore, e innalza trincee di fronte agli esuberanti abbandoni cui cede il corpo, perché li ritiene minacciosi, demolitori di equilibri, consumanti. Sarà stato in preda a questa non spicciola dicotomia che quelli di Matrix (programma che rapisce il titolo di un decente film, e che lasciava supporre altro corso – altro, altro à la Matrix film – rispetto a come poi s’è rivelato) hanno organizzato stasera una buona puntata. Non che abbiano brillato di luce propria, s’intende, ma è bastato farmi sbirciare due film che attendo da più di un anno per convincermi della bontà: Gomorra di Matteo Garrone (il dialetto, nel trailer si badi al dialetto), e Il Divo di Paolo Sorrentino (la musica, il movimento, l'epos, si badi a questo). Due perle italiane. Due rarissime perle talmente diverse da farmi pronosticare una gran mezza primavera. Il primo atrocemente appiccicato alla realtà, alle imperfezioni del volti, ai punti neri e alle rughe; il secondo così disarmato di fronte alla forza del deragliamento, all’ironia nera, all’immagine che scortica l’occhio. Il primo a scavare le falde rosse di questa terra; il secondo a dare forma alternativa e veritiera – la forma alternativa della sostanza mimetica è sempre più veritiera – a quel pilastro mimetico – chissà quanto imbottito – della nostra repubblica che è Andreotti. Due perle. Due prove irripetibili che diranno se. Che diranno se Sorrentino e Garrone, certosini e pazienti e intransigenti, hanno modificato il grande pubblico perché questo si accorga del loro genio. E noialtri, dalle colonne di Libmagazine, saremo lì a testimoniare – a sproposito, si veda questa pubblicità casual. Per farla breve, s’è visto il metodo di Garrone, con l’immagine madre fetente che rinnega il partorito, e subito scosta, e s’è visto l’incipit rallentato da western burocratico di Sorrentino. Poi s’è visto Servillo, presente in entrambi i lavori, che da migliore è due entità distinte. Se ci fosse stato un terzo film sarebbe stato trino.
vignetta da LibMagazine
venerdì 9 maggio 2008
giovedì 8 maggio 2008
cattivi al cinema
Ciro Monacella
mercoledì 7 maggio 2008
martedì 6 maggio 2008
notizie dal profondo sud
lunedì 5 maggio 2008
finalmente domenica
clicca sull'immagine per ingrandire e leggere,
putroppo il mio documento di testo è andato smarrito nei buchi neri dell'elettronica
(si astengano perditempo e appassionati di Truffaut, che ci vado giù pesante)
giovedì 1 maggio 2008
cancellato il ministero dello sport?
su libmagazine