La domanda
Germania-Spagna
La risposta
la vignetta di libmagazine
la vignetta di libmagazine
Da LibMagazine, al delinearsi della semifinale Germania-Turchia, s’era detto che i turchi si sarebbero fatti segnare un gol al penultimo minuto per poi farne due all’ultimo. Lungi dallo sparo a salve, la convinzione era dettata dalla naturale incapacità dei turchi di porgere il collo. Difatti questi scendono in campo più rognosi del solito pur se rimaneggiati nella formazione: si allargano sul rettangolo come fosse una pozza e loro bolle di grasso, mordono l’erba e le caviglie tedesche. Gli avversari invece appaiono subito di quella bislacca tempra che oscilla tra l’impalato e il nostalgico: ripensano ai fasti, i tedeschi, e allo spazio verde che sotto alle mandibole turche sparisce sempre più. Però che gradevole frescura questi ventidue che se le danno senza guanti. Chi più chi meno. Più i rossi meno i bianchi. Traversa. Poi di poco a lato. Soffre la Germania. Sempre la stessa storia ‘sti tedeschi: se non sono loro ad attaccare li piglia il torpore. Ma d’improvviso, una pausa politica: in telecronaca si dice che trattasi di derby – ecumenismo spicciolo. La Germania è piena di emigranti turchi, e di conseguenza la Turchia è piena di turchi che hanno parenti in Germania. Ragioni climatiche e di sostentamento impongono una svolta europeista alla lettura sportiva, figurarsi che in argomento non mancano i citrulli che proprio sotto quell’inglesismo derby amano darsele. Tac, nel mezzo della divagazione segna la Turchia. Mezza Europa esulta. Tempo due minuti, un calciatore che deve aver rubato il cognome ad una doppio malto bavarese pareggia. Schweinsteiger. Giusto una sbronza occorrerebbe alla corretta pronuncia. Si va all’intervallo. I due tecnici sono visibilmente extraterrestri l’uno all’altro. Loew, un monolitico monosillabo, stessi calzoni e camicia da un paio d’anni, ha pochi segreti sotto la bassa e nera frangia, suggerisce di allargare il gioco, di sfruttare i terzini, di sfruttare i polacchi naturalizzati, i tiri di Ballack – come appunto da un paio d’anni. Terim lo chiamano l’imperatore, è caldo e pazzo, è caldo e sudato, è il tipo che ti piglia per il bavero e ti manda in campo, figurarsi per dove ti piglia se dal campo deve cacciarti. Si torna in campo (tutti interi) e dopo dieci minuti succede il fattaccio. Se la Vukotic moglie di Fantozzi avesse avuto voce in capitolo sarebbe stato di certo suo il copyright della vicenda: lo schermo, cataclisma e scherno, si oscura. Il calciofilo d’istinto passa a raidue, “il solito salto del segnale” suggerisce a se stesso. Mannò, funziona finanche raitre. E poi il bollino “raiuno” è ancora lì, sol soletto in alto a destra. È il buio, è la notte, è il vuoto, il giorno del giudizio. Un giudizio femminista. La canna del gas è poco distante, e comunque c’è il forno. Il calciofilo medita sulla morte: sarà un po’ come un rigore sulla traversa, ma senza tonfo, si dice, come Di Biagio nel '98 ma col sonoro di Baggio nel '94. Poi, lato macabro del miracolo, raiuno si apre sul salottino dei bradipi: Mazzola, Longhi e Bartoletti chiamati all’ordine dall’emergenza danno sfoggia della loro capacità di reazione. Non c’è storia, pensa il calciofilo, mamma rai è sempre ‘a mamm’. Il collegamento si riallaccia, la vita si schiude come un girasole, e il sole… e il sole… si stacca di nuovo il collegamento. Nel buio ci avvertono che ha segnato un polacco. Polacco? il calciofilo pensa ad un attentato, ma noi sappiamo che i polacchi giocano per la Germania. Però al buio. Il primo angolo verde che torniamo a vedere dopo interminabili minuti è ripreso dalle gradinate della curva tedesca, dall’alto, schiacciato, buffo e amatoriale, con commento radio. Non si vede la palla che gira, ma la si intuisce dai movimenti di macchioline rosse o bianche che segnano fughe sul televisore. E s’intuisce che la palla s’avvicina al vertice basso dell’inquadratura, che poi sarebbe la porta tedesca. Al commento radio si sovrappone la cronaca, probabilmente telefonica, di Cerqueti e Collovati, voci che arrivano un istante prima dell’immagine e che ci anticipano ciò che l’intuizione avrebbe faticato a esporre: quelle macchioline ammassate in basso significano il gol del due a due turco. Mezza Europa esulta di nuovo. Mezza Europa, se legge LibMagazine, preconizza il terzo gol, quello dell’ultimo minuto. Ed arriva il gol, ma è tedesco. Lo segna Lahm, il terzino sinistro di piede destro, come a dire “avanti che indietreggiamo!”. Mezza Europa si accascia sul divano, l’altra mezza, compresa la precedente, si accascia per una nuova interruzione del segnale. L’Europa degli Europei, degli europei e degli europeisti, è in ginocchio al buio. Forse Al Quaeda. Forse Blatter, per imbrogliare meglio nell’oscurità. Anzi no, sapete cosa dico? forse Marcello Lippi!
Che niente di ciò che è umano debba essere estraneo all'uomo, s'è già detto. Che ciò che è umano debba, esattamente in virtù d'umanità, essere sfrondato dai cagli e dai lacci del precostituito, si prova a dirlo. Due ultime parole, allora, il caso le merita. Non in quanto caso di chissà quale spessore, ma in quanto esempio di fenomeno umano che è soggetto, da parte del soggetto più umano della media, ad una esauriente e feconda possibilità di previsione.
LibMagazine mi offriva la possibilità, in data 8 giugno (Giu 8th 2008, recita il testo), di ragionare su una cazzuta novità in ambito calcistico: l'Italia allenata da Donadoni si apprestava a cominciare l'Europeo con tre punte tre. Le convocazioni stesse del cittì andavano in quella direzione, ovvero: se devi giocare con tre punte e tre centrocampisti non hai altra scelta che convocare meno centrocampisti e più attaccanti rispetto al consueto alveare di mediani con cui si parte dall'Italia per le grandi competizioni.
Da parte mia c'era un certo ottimismo, non nascondo, un frizzore, un odore di cattiveria e menefreghismo avvertibile nel respiro della nostra squadra, e in Donadoni, memento audere semper! scrivevo: "Da osservatori esterni a queste ipotetiche diatribe, noi di Libmagazine ci ergiamo a sintetici sostanzialmente eclettici, e non poco pragmatici, ritenendo che l’Italia vincerà gli Europei, e questa volta divertirà esteticamente, solo in caso di ostinazione del suo tecnico nella vocazione offensiva. Ma che li perderà tristemente se alla prima bastonata – e visto il girone con Romania, Olanda e ancora Francia non sarà difficile recuperare legname – retrocederà."
Sai tu cosa è accaduto? Che la bastonata è stata dura, forse chiodata, triplamente chiodata, e arancione. E che da quell’esatto istante Donadoni ha ricriticato, in cieca confutazione, tutte le sue premesse, la sua tesi sfaccimmosa delle tre punte in campo e cacchi altrui. S’è appellato al Del Piero mezza punta. Poi al Cassano con stigmate. Comunque sempre 4-4-2 solido e stantio. E addirittura nell’ultima gara, quella lesiva del senso del pudore d’ogni amor ludico, anziché profittare delle squalifiche di due indispensabili centrocampisti quali Pirlo e Gattuso per riproporre le ali alte con centravanti (tre punte tre), ha organizzato una linea mediana di scarpai e cartigienicisti. Nessuno si lamenti della merda, io avevo avvisato.
Da LibMagazine
Siamo alla conferenza stampa che precede Italia-Francia. A domanda sulla sua probabile ultima panchina come coach francese, Raimond Domenech si rivolge al giornalista. Che non sa se quella sarà la sua ultima partita da cittì, ma che quella è l’ultima domanda della giornata, così dice, col suo muso da lupo. Senza dubbio antipatico. Eppure non si può non gradire questo tipo di comunicazione. Tanto più che la sua prima dichiarazione dopo le scoppole ricevute dagli azzurri non è sulla punta retroversa del piede di Henry, né sulla kamikazzata di Ribery, né sulla velocità che il suo monastero di sabbia e orgoglio impiega a collassare. No, lui dice che il suo progetto è chiedere alla moglie di sposarlo, come travolto, il lupo, più che dalla sostanza testicolare dei calciatori azzurri, dalla falda rosa che abbevera l’eliseo. Ammessa dunque l’umanità – non da melenso rotocalco ma da comunicazione surrealista – di Domenech, bisogna riconoscere che la lezione impartitagli da Donadoni non è di serietà, ma di tecnica. E parliamo della prima tecnica del cittì: la capacità poco surreale e ancor meno onirica di selezionare i calciatori migliori in quel dato momento, indipendentemente da auree pubblicitarie o storiche. L’errore del temporaneo affidatario degli orfani di Zidane è allora a monte, e risale a convocazioni strampalate scaturite da capricci personali o zodiacali. L’allenatore ad esempio non convoca i nati sotto lo scorpione, e ad occhio e croce anche l’autista del pullman francese, visto il quadruplo tamponamento causato all’arrivo allo stadio, dovrebbe essere frutto di calcoli astrali. Ma ancor più gravi le assenze di Mexes in difesa, di Trezeguet in attacco, di Frey in porta, e per di più la fiducia riposta in bufalotti neri quali Anelka e Govou, che contrapposte alle convocazioni quasi demagogiche di Donadoni (giustamente demagogiche in virtù di quel certo detto antico), hanno determinato la mollezza francese. Gli italiani invece hanno iniziato l’europeo quando hanno subito il gol della Romania, alla prima salita, come altrettanto antica usanza impone, e come la diga alpina forse ha educato. Sembra dunque raggiunto quel cantuccio di crosta terrestre da dove poi inizia la discesa. C’è solo da stabilire se questa durerà il tempo necessario per andarsi a giocare la finale. Buffon coi nervi così affilati da tagliare lo spazio, suggerisce di sì. Anche Cassano dice di sì, e lo fa quando in una partita giocata con lo scopo unico di far segnare Toni l’incantato si ritaglia solo due gesti personali, due tiri concettualmente sbagliati – ma si sa che il suo genio non è nel concetto. Gattuso e Pirlo, che mancheranno per squalifica nel quarto con la Spagna, e una difesa umorale, e il già accennato abisso d’incanto in cui è caduto Toni, dicono di no.
Passiamo la parola all’Olanda. Questa, eccola col tono del vecchio re, quello che giudica perché è il più forte con la spada, ha detto di sì. E lo ha urlato con due gol ai romeni proprio mentre mezza Italia denunciava l’immoralità altrui denotando una sorprendente sensibilità alle combine sportive, manco Van Basten avesse la voce palatale di Moggi. I commentatori più illustri annaspavano nello sforzo di ritenere nefasta per gli azzurri la scelta di Van Basten di schierare le riserve contro la Romania, ignorando o addirittura capovolgendo la camaleontica questione motivazionale: secondo loro le riserve, vogliose di guadagnarsi un posto da titolari, sarebbero state meno motivate dei titolari, che in realtà, guadagnatasi già la qualificazione, non avevano nulla per cui sudare. Tutto questo volendosi fidare del potere enorme del motivo, senza manco badare al fatto che una semplice vittoria in una competizione del genere porta in cassa alle federazioni alcuni milioni di motivi in foglietti di banca. Ecco allora dimostrato l’equivoco della stupidità del mondo del calcio. Essa non è mai in chi concretamente lo fa, quel mondo, ma in chi parlandone lo infetta della propria stupidità.
Ciro Monacella
Da LibMagazine - dove trovi anche una bella intervista a Eugenio Bennato
Considerando il calcio in senso assoluto, ovvero come esperienza che trova nelle righe di gesso del prato i suoi ben netti confini, non si può negare quanto fedele esso sia in una certa rappresentazione universale degli umani vizi e delle umane virtù. Dunque appare evidente che, proprio come in ogni arte o tecnica, la finezza dell’atto debba essere la sola discriminante del buon esito del gesto nella sua totalità. Questo per dire che “giocare bene a pallone”, in uno sport che prevede che tal pallone venga passato di piede in piede, è proprio più del collettivo ben omogeneo che del narciso votato all’eterogeneo. Tuttavia, e parliamo dell’Olanda, la prestanza definitiva del collettivo non può che fondarsi sulla concentrazione, sul dinamismo atletico, e sulla fine tecnica del singolo. A ciò non si dimentichi di aggiungere quella funesta e suprema verità – l’unica – il caso, di fronte al quale i più codardi tra i furbi trovarono opportuno inventare gli dei. Giustamente, e divinamente, allora l’Olanda schiaffeggia dopo l’Italia anche la Francia: giustamente perché Van Basten schiera un centrocampo tecnicamente ineffabile e al contempo arcigno in fase difensiva; divinamente perché il caso mette i giusti giri – i giusti, i compatibili giri – nel pallone e nei piedi arancioni, così tiri imprendibili, così soluzioni imprevedibili tutte a buon fine. Mentre in un altro campo l’Italia, pur pungolata dalla sua storica e affezionata acqua alla gola, pareggia giustamente perché Donadoni si ostina a inserire tardi l’unico lampo irregolare che ha, Cassano; e divinamente perché i regolari tiri dei suoi trovano le regolari risposte dei portieri avversari.
Ma il calcio non va considerato in senso assoluto. La sua natura di sport di massa lo forza a dotarsi di un vero e proprio sistema politico che tenga a freno le intemperanze umorali della massa attraverso organismi sopranazionali, e che permetta una vendita del prodotto alla stessa massa nel miglior modo possibile – alludiamo chiaramente a criteri di capitale. Un collegio evidentemente kafkiano ha deciso che le teste di serie degli europei fossero Austria e Svizzera in quanto paesi organizzatori, Grecia in quanto campione uscente, e Olanda in quanto dotata del miglior coefficiente-punti nelle due ultime serie di qualificazioni a mondiali ed europei. Non aver valutato la scarsezza delle nazionali austriache, greche e svizzere, né la tradizionale forza di nazionali come Germania, Portogallo, Spagna, Italia e Francia – le ultime addirittura finaliste nell’ultimo mondiale – ha contribuito a formare raggruppamenti mai così disparati. Si va dal ridicolo girone della Germania (con Austria, Croazia e Polonia) e dallo scialbo girone della Spagna (con Svezia, Grecia e Russia) al cosiddetto girone di ferro dell’Italia (con Francia, Olanda e Romania). Conseguenza di questi improvvidi errori di valutazione sarà la prematura eliminazione di discrete squadre di calcio in clamoroso controsenso rispetto alla finalità dello sport-spettacolo, che è quella di premiare i migliori perché i migliori fanno più audience.
Eppure, paradossalmente, e in una prospettiva d’osservazione piramidale, siamo ancora nel rettangolo verde. Il problema sorge quando ciò che non appartiene al calcio interviene a determinarne lo svolgimento. L’arbitro ha una funzione di trasparenza: egli non esiste, non rappresenta, non è sulla scena. L’arbitro è l’estensione trasparente del regolamento di gioco, in un certo modo la sua mano, ed ogni sua attività è tollerata per l’esclusivo suo compito di garantire il rispetto delle regole nel limite dell’umana possibilità di corretta o scorretta interpretazione, di corretta o scorretta visione di quanto accade. Una macchina insomma. Una telecamera che manda immagini al luogo in cui giacciono le norme – il cervello, ma la regia – in modo che lì si valuti l’aderenza o meno al regolamento. A quanto pare la telecamera saprebbe far lo stesso. Ma di più, la telecamera saprebbe garantire una quasi totale infallibilità nella valutazione, perché non esiste alcun paragone solido fra l’oggettività dell’uomo e quella dell’oggetto. La moviola è il passo offerto dalla tecnica verso la verità del gesto sportivo, tanto nel godimento per la bella giocata, quanto nella diagnosi giusta di un episodio guasto. Lungi dal basso positivismo, si potrebbe definire la tecnica uno strumento di liberazione da tutti i tipi di nebbie. In particolare la tecnica ad uso della massa, che si sa quanto vada ghiotta di nebbia. Ma c’è un particolare – che c’è sempre stato – : la liberazione presuppone uno stato di schiavitù, che a sua volta presuppone uno stato di padronanza altrui. Nell’errore umano, e nella buona fede dei misericordiosi, si annidano i meccanismi che rafforzano lo stato di padronanza. L’errore umano, o quello che tale si definisce, è la forbice d’ombra nella quale potenzialmente agisce, non visto, chi ha potere per agire.